Dal Caspio al Tien Shan, un mese in Asia Centrale e altre scorribande, tra cui il Friuli
Storie dal Turkmenistan, dal Tagikistan, gli ultimi tour di Kukushka e un'escursione in Friuli dal 21 al 23 giugno
Ciao!
Questa è Pain de Route, cioè pan di via, la newsletter più imprevedibile dell’Est. Di Eleonora Sacco, che poi sarei io.
È lo spazio dove provo ad arrotolare i fili ingarbugliati di una vita senza copione, annuncio in anteprima gli eventi e i viaggi di gruppo e raccolgo qualche consiglio di ascolto e lettura. Esce quando deve uscire.
In evidenza: sono aperte da ora le iscrizioni per l’esplorazione delle Alpi Giulie in Friuli, dal 21 al 23 giugno.
Dal Caspio al Tien Shan, un mese in Asia Centrale
Vi scrivo dal Wi-Fi ballerino del Panjakent Plaza, un hotel dall’immancabile tocco kitsch imperiale della piccola città di confine di Panjakent, a un’ora da Samarcanda, ma in Tagikistan. Una città-paese aggrappata alle scogliere di arenaria lungo il fiume Zaravshan, di prefabbricati sovietici con le loro finestre dal design smussato e case in argilla e paglia senza acqua corrente.
L’altura dove sorge l’antica Panjakent (letteralmente ‘cinque città’) domina la valle e i rigagnoli argentati in cui si disperde il fiume. Un pastore siede accovacciato sul lato nord delle antiche mura, il bastone in mano, le sue pecore sul pendio erboso che le ricopre, a brucare erbe millenarie. È un luogo dove ti immagini realmente cosa volesse dire essere una città fortificata dell’antica Sogdiana - via privilegiata di passaggio della Via della Seta, a 60km da Samarcanda, affacciata su un fiume che, goccia dopo goccia, sottrae pagliuzze d’oro alle immense montagne che separano queste terre aride dalla Cina. Chi era nei paraggi e fosse diretto nel Celeste Impero, bene o male doveva passare di lì.
Ogni casa a Panjakent è un piccolo isolato a se stante, con diversi edifici che ospitano i figli maschi con le loro mogli e famiglie, un orto e alberi da frutto nel cortile, il forno d’argilla, le galline che scorrazzano, belle finestre in legno intagliato dipinte di azzurro. Da lassù un po’ ci si può spiare dentro e immaginare vite che da fuori diventano invisibili, tra albicocchi in fiore e tende ricamate dietro i vetri.
La vita nel Tagikistan rurale è durissima. Neve d’inverno, un caldo asfissiante d’estate, carenza d’acqua e situazione preoccupante da un punto di vista igienico-sanitario. Dal 2018 a oggi, davvero poco è cambiato, mentre i paesi circostanti fanno passi da gigante e ruggiscono forte ritagliandosi il loro posto nel mondo. In Tagikistan, a volte la vita sembra rimasta ferma agli anni ‘30.
Un gruppetto di uomini si ritrova a sdraiarsi sotto un pilone dell’elettricità, sulle sponde alte del fiume, a chiacchierare prendendo il fresco della sera. Sono signori anziani, sempre vestiti bene, coi loro cappellini neri e rigidi, dai ricami viola o bianchi, ben incastrati sul capo. Ci sono già le prime zanzare, qui in Sughd, il tramonto è velato dalle nuvole dei temporali in arrivo, ma la luce sullo Zaravshan è incantevole. Ogni angolo del Tagikistan lo è e sembra impossibile. Due ragazze siedono sul ponte a chiacchierare, guardando il fiume gonfio d’acqua e fango. Mi fissano, da lontano - io sono un puntino in cima alla sponda tra un gruppo di container abbandonati, loro due macchie chiare su un vecchio ponte arrugginito.
Quando torno indietro, mi fermano cinque signori accovacciati sotto un bell’albero dalle foglie verde scuro. Erano disposti uno a fianco all’altro in una luce dorata, sotto i rami folti, come in un quadro. Uno di loro mi sorride, ha tutta l’arcata superiore d’argento. Non dice neanche un salve, ma direttamente «vieni a bere un tè da me». Parla un russo semplice, dall’accento forte.
Solo ieri un signore in una vecchia sala da tè di Khujand mi ha detto: «dimmi cosa posso fare per te». I tagichi quando dicono queste cose mettono una mano sul cuore. Lo fanno per cultura, ma credendoci per davvero. Con montagne così grandi e forti qui non si possono dire bugie e lo capisco: non c’è tempo per scherzare.
Dopo un po’ di insistenze, mi ha presentato sua moglie e ho accettato l’invito. Vivevano nella penultima casa della strada, con un piccolo giardino pieno di alberi da frutto, affacciato sul fiume. Tra spose, figlie, figli vari, cognate e bambini piccoli figli di altre persone ancora non ci ho capito più niente, così nel dubbio mi sono seduta su un cuscino e ho lasciato che le cose si svolgessero da sole, mentre fuori il sole tramontava e la luce si affievoliva fuori dalle finestre e tutti i barattoli sui davanzali.
Di case così, un po’ speravo non ce ne fossero più. Invece, sei anni dopo il primo viaggio in Tagikistan, sono stata di nuovo ospite di un’altra famiglia che non ha l’acqua corrente in casa, in un villaggio di cinquantamila abitanti. La nonna manda una ragazzina a riempire il secchio di metallo dal tubo che sbuca dal bordo della strada, dove i bambini si affollano con taniche da cinque litri da riempire. Mi scaldano il tè in una teiera sbeccata, spezzano il pane in mio onore, un’altra signora rovescia un sacco pieno di caramelle e arachidi zuccherate in una bacinella, il nonno si avvicina alla soglia e grida «là nel bosco ho un cavallo, sestrënka, lo vado a prendere e lo ammazzo per te». Seduta sui miei cuscini in mezzo alla sala degli ospiti, non ho più parole per rifiutare e ringraziare, mentre sempre più donne si affannano per fare gli onori di casa.
Spuntano donne su donne, quella che è solo la balia che allatta un piccolo di due mesi, poi la sua mamma, che sembra una bambina. Le chiedo quanti anni ha. Nuzdah, mi risponde. Nuh vuol dire nove, dah dieci. Diciannove anni e un bimbo di due mesi. «Sei felice?», le chiedo. «Tuo marito fa il bravo?». Non capisce il russo, la nonna annuisce per lei, che sorride con in mano il suo bambino, gli occhi che rimpiccioliscono e diventano più scuri con la luce del crepuscolo. Da sposa del figlio dei padroni di casa, non si ha molta altra scelta se non essere felici per forza.
Imparo a dire trenta in tagico, la mia età. Sibà. Sono molti più anni di quelli che avevo la prima volta che li ho detti a qualcuno da queste parti, e un po’ mi fa impressione. Mescolo verità e storie inventate, perché più spiegazioni di così in tagico e in russo non le so dare. «No, ma l’anno prossimo mi sposo», «ah, bene, brava, brava sestrënka». Ho perso lo status di devushka, ragazza, e non sono ancora a quello di zhenshchina, donna. Nel dubbio, va bene sorellina.
Sta venendo buio e devo tornare, mi congedo con decine di saluti, abbracci, commiati, la nonna mi accompagna fino alla fine della strada. Do svidaniya a chi se ne va, assalom aleykum a chi arriva. Le sue vicine la guardano con stupore, lei risponde «è una nostra amica italiana». I lampioni non funzionano, a Panjakent, e mi lascio assorbire dal buio, dopo un abbraccio e una promessa di averla da me in Italia, un giorno. Il suo passaporto probabilmente non la porterà mai più in là del vicino Uzbekistan.
Le luci accese degli appartamenti dei vecchi prefabbricati sovietici, decorati con immensi mosaici psichedelici, colorati e luminosi come i vestiti delle donne tagiche, sembrano provenire da Marte. La vita che si muove dietro i vetri sembra una visione sul futuro.
Di tutti i paesi dell’Asia Centrale, nessuno è come il Tagikistan, che sembra forse più un pezzo di Afghanistan finito per sbaglio in Unione Sovietica. Dilaniato da una guerra civile delle più terribili, durata cinque anni e finita in un bagno di sangue, è governato dallo stesso presidente dal 1994: trent’anni di dittatura, trent’anni di indipendenza, e ancora nel 2024 c’è chi non ha l’acqua in casa, mentre il paese è tappezzato di ritratti, cartelloni e gigantografie della guida del paese. Di queste e altre cose sto raccontando molto su Telegram, se vi interessa.
Se le cose in Uzbekistan, Kazakistan e Kirghizistan sono parzialmente cambiate, l’unico altro paese che vive una situazione analoga - se non peggiore -, ma con maggiori introiti derivati dal petrolio e dal gas, è il Turkmenistan. Dopo aver sognato di raggiungerlo molte volte (intendo letteralmente) e con sogni bellissimi, finalmente a fine aprile sono riuscita a ottenere il visto e a entrarci insieme a un nostro gruppo. Il Turkmenistan, dopo la Corea del Nord, è il paese più chiuso al mondo. È stato un viaggio surreale, a tratti onirico e a tratti distopico, forse un trip acido o un’allucinazione sotto il sole del deserto.
La prima sera è successa una delle cose più assurde di tutto il viaggio: dopo aver constatato che avevano emesso dei biglietti duplicati identici ai nostri, ci hanno fatto scendere giù dal treno notturno per Turkmenbashi - l’unico treno giornaliero. Qui ho scritto, in una mail speciale dedicata a chi voleva ricevere una cartolina virtuale da Ashgabat, come è andata a finire.
«Una volta saliti sul treno, ci accorgiamo ben presto che i nostri posti sono tutti occupati da altre persone che hanno il nostro stesso identico biglietto. Controlliamo più e più volte, ma niente: sembra davvero che i posti siano perfettamente duplicati. I controllori sono nervosi, la nostra guida corre come una trottola parlando con mezza stazione, nel mentre noi aspettiamo senza spere che ne sarà di noi. Il treno è già fuori orario e i capitreno hanno fretta di mettere in moto i motori a gasolio delle locomotive.
Per tranquillizzare i ragazzi, dico loro che verosimilmente succederà che sposteranno le altre persone e faranno sedere noi al posto loro, nei posti prenotati. Purtroppo per gli abitanti locali, non si può far brutta figura davanti a un turista occidentale in visita.
Dopo un minuto, però, arriva il contrordine. Scendete tutti.
Panico.
Scendiamo uno a uno in fretta e furia, i controllori ci urlano bystro, bystro!, io gli urlo che mancano ancora due persone. Alla fine ci siamo tutti, i nostri zaini ammucchiati sulla banchina, i nostri sguardi sconsolati e confusi. Il treno si allontana senza di noi, lento e in un concerto metallico, il cibo della cena in attesa di essere mangiato nei sacchetti di plastica appoggiati a terra. Di treno per Turkmenbashi ce n'è uno solo al giorno. Ormai il nostro è andato. L'aereo del mattino dopo, a quest'ora del pomeriggio, è già pieno. L'unica opzione sembra salire su un minivan e lanciarsi per sette ore su una strada che fila dritta verso ovest, villaggio dopo villaggio, duna dopo duna.
Aspettiamo il da farsi e valutiamo le diverse opzioni, nella tristezza di vedere i nostri piani abortiti sul nascere già il primo giorno, quando ad Aziz suona d'improvviso il telefono. Eleanora, mi dice, abbiamo un'altra opzione.
Le ferrovie hanno fatto i controlli del caso e hanno accertato il loro errore: c'è stato un overbooking. Si sono offerte di pagarvi un bus che vi porti fino alla prima stazione grande, Gökdepe, dove il treno rimarrà ad aspettarvi. Dovrebbero esserci posti per tutti.
Brancolando nel buio e in balia del problem solving delle ferrovie turkmene, decidiamo di affidarci a loro e tentare la nostra sorte.
Increduli, schizziamo via, ammassiamo le nostre cose in un autobus scassato con un autista sclerato, che si si lancia alla rincorsa del treno. Siamo appesi a un filo, senza alcuna certezza, senza sapere cosa questo paese sta macchinando per noi.
Quando arriviamo a Gökdepe, il treno è pronto in banchina, in paziente attesa. Quando passiamo vicino al nostro vagone, gli altri passeggeri ci salutano increduli dal finestrino. Siete ancora voi, ce l'avete fatta! Tre cuccette sono libere, ma ne mancano altre due. I posti si libereranno strada facendo, assicura il capotreno. Ci sarà posto per tutti, assicura.
Per tutto il viaggio ci chiediamo cosa è stato della ventina di persone misteriosamente scomparse dalle nostre cuccette senza lasciare traccia. Ci spertichiamo in spiegazioni fantasiose, alcune tragiche, altre più ottimistiche, ma chissà.
Quando finalmente tutti trovano un posto dove dormire in cuccetta, il capotreno mi prende e mi porta insieme alla guida, Aziz, in uno dei loro scompartimenti. Aziz traduce in russo dal suo turkmeno. Eleanora, chiede se vuoi rilasciare una dichiarazione spontanea su come è andata tutta questa vicenda. Insomma, ci sono stati dei problemi, è vero, ma sono stati risolti brillantemente, no?
Mi guarda implorante, gli occhi ben spalancati e lo sguardo fisso.
Mi prendo qualche secondo per capire cosa intende.
Nu konechno, certo, rispondo. Sono proprio stati risolti... brillantemente, sì.
Ti andrebbe di scrivere la dichiarazione? Scrivila in russo, che è meglio.
Sì, Aziz, ma non saprei cosa scrivere.
Non ti preoccupare, scrivi così, e inizia a dettare una lingua formale con lentezza. Mi sento tornata ai dettati delle lezioni di russo a Mosca. Siamo solo noi due, il controllore è andato via.
Io, Eleonora Sacco, non intendo sporgere alcun reclamo né ulteriori pretese circa la prenotazione della quale sono mancati i posti per i turisti italiani. ZhD (le ferrovie turkmene) ha risolto velocemente questo problema e ora tutto è in ordine.
28/04/2024
Eleonora Sacco.
Aziz prende il foglio e sparisce. Grazie, mi dice, gli occhi grandi e penetranti, prima di scivolare fuori dalla porticina.
Non so cosa, come, dove, quando, perché di questo foglio. Dove finirà, chi lo leggerà. Forse, nell'ansia, ho pure scritto con degli errori. Forse ha salvato un giro di teste. Le possibilità che una cosa del genere succeda in Europa sono sicuramente inferiori allo zero.
Di sicuro, non poteva esserci un modo di guardare più a fondo del paese di così».
Tour estivi: quel che rimane
I tour estivi di kukushkatours.it sono andati quasi tutti sold out.
Rimangono:
Viaggio reportage nel delta del Danubio, tra la comunità lipovana, con il fotogiornalista Pietro Romeo, 23 - 31 agosto, 1490€ // disponibile
Moldova e Transnistria, con Gianluca Pardelli, 22 - 27 settembre, 1290€ // confermato, disponibile
Ci sentiamo a fine giugno per pensare il viaggio di capodanno in Iraq. E per i prossimi nel 2025.
Vi aspettiamo ♥
Prossimi eventi
Il 29 maggio alle 18.30 da Nuovo Armenia a Milano terremo una serata dedicata al Turkmenistan con Mattia Salvia di Iconografie e Gianluca Pardelli di Soviet Tours/Kukushka Tours. Ingresso libero, dettagli più avanti.
Il 21, 22 e 23 giugno, torna l’escursione in Friuli con la guida escursionistica Nicola Ceschia che l’anno scorso era stata letteralmente un sogno. Iscrizioni aperte, informazioni qui, 120€
Consigli stravolti
Tra il turbine dei tour e le parentesi di vita a Milano sono stata ancora una scarsa lettrice e ascoltatrice. Qualche consiglio (o no):
📰 Ieri è uscita la newsletter di Iconografie, con un’analisi di Mattia Salvia sul Turkmenistan per come l’abbiamo vissuto noi. È molto bella e onesta, ve la consiglio.
🎧Fatto benissimo il podcast Transsib, di Lucia Bellinello, giornalista specializzata sulla Russia. Poco dopo che l’ho scoperto ci ha contattati per chiederci di fare una puntata sul turismo in Russia e in ex URSS, ed eccoci qui!
🎧Carino il podcast Majlis, di RFE/RL e di taglio giornalistico, sull’Asia Centrale. Ho sentito la puntata sui giacimenti di gas del Turkmenistan e quella sul primo anno di presidenza di Berdi figlio, il terzo presidente del paese post indipendenza.
📖Un po’ introvabile, ma carina l’assurda storia di un ungherese che a metà Ottocento si finge derviscio per attraversare senza essere ucciso l’impenetrabile e chiusissimo Turkestan russo, nei territori degli odierni Turkmenistan e Uzbekistan. In pieno nel filone dell’orientalismo, Vámbéry parla turco senza accento ed è un caso forse più unico che raro di occidentale che riesce a mimetizzarsi in tutto e per tutto tra altre culture per studiarle da dentro. C’è nelle biblioteche perché è fuori catalogo.
📖 Ho riletto stralci di Sovietistan di Erika Fatland, che avevo presentato con Angelo Zinna al Festival della Letteratura di Mantova nel 2022. Più passa il tempo, più lo trovo di una superficialità disarmante, banale, noioso e orientalista. Tre quarti del libro sono ricerca fatta da casa a livello Wikipedia, che poco hanno a che vedere con la narrazione del viaggio in sé. In sostanza, Fatland poteva anche scrivere da casa e poco sarebbe cambiato. Di antropologico nel libro non c’è quasi nulla. L’interazione umana con le persone circostanti è talmente scarsa da essere preoccupante, e dire che in Asia Centrale farsi trascinare dalle persone del posto è davvero così facile. Sono loro a prendere te, se hai un minimo di empatia umana. L’unico lato non negativo di questo libro è che non esistono altri libri contemporanei simili, e che contiene comunque tante informazioni: per chi si approccia per la prima volta all’Asia Centrale può essere un’introduzione passabile. Erika Fatland mi è sembrata una persona piacevole, intelligente, arguta. Peccato che i suoi libri siano di un piattume insostenibile, compreso La Frontiera, che è un po’ meglio di Sovietistan, ma siamo lì. Ho aggiornato la mia lista di libri consigliati sull’Asia Centrale.
🎥 Il bianco sole del deserto, Vladimir Motyl', 1969, con sottotitoli in italiano su perestroika.it. Film sovietico di genere eastern, il western sovietico, girato interamente in Turkmenistan, tra le città di Merv (Mary) e Krasnovodsk (oggi Turkmenbashi). Mi è piaciuto molto, dalla fotografia curata e minimale alla colonna sonora, con canzoni del leggendario Bulat Okudzhava, fino al velo di ironia e al cast pansovietico. Non mi ha sorpreso che quasi non ci fossero attori turkmeni o centroasiatici coinvolti. Persino l’antagonista turkmeno basmachi principale, Abdulla, è impersonato da un attore georgiano, un suo aiutante da un attore ceceno. Le mogli di Abdulla sono attrici di origine pan-sovietica, da Ekaterinburg alla Lettonia all’Ucraina alla Jacuzia, gli altri attori sono russi, armeni del Don, tra gli sceneggiatori ce n’è uno azerbaigiano, il regista è ebreo della Bielorussia. Questo cast pan-sovietico da un lato perfetta esemplificazione dello straordinario meltingpot etnico, dall’altro rivela un racconto orientalista su una regione che è un soggetto passivo, uno sfondo meraviglioso che non assume tridimensionalità. Questo è emblematico di come l’Asia Centrale sia stata spesso vista e rappresentata in Unione Sovietica, ma anche per come ha continuato e continua a esserlo nei reportage di viaggio scritti da occidentali in viaggio in quelle regioni, da Tiziano Terzani a Erika Fatland, dove le persone del posto non hanno voce - o ce l’hanno solo determinate tipologie di persone in qualche modo allineate alla visione del mondo occidentale.
🎥 Five broken cameras, Emad Burnat, 2011, documentario eccezionale e devastante che testimonia l’occupazione violenta e sistematica dei coloni israeliani in Cisgiordania dall’inizio e l’origine della costruzione del muro. L’ho visto proiettato nella saletta di Nuovo Armenia dove eravamo in pochi e dove il dolore fisico per quello che stavamo vedendo era palpabile. Come inizia un genocidio, da zero. È così semplice da capire perché non c’è proprio niente da capire. Da vedere, c’è anche accessibile su YouTube.
🎧Sto in fissa con gli Altin Gün (lett ‘giorno d’oro’), gruppo rock psichedelico anatolico vincitore di un Grammy e di base ad Amsterdam, che vengono in concerto a Roma e Bologna il 12 e 13 giugno.
Un abbraccio e a presto,
Eleonora
Complimenti, davvero interessante!
Felice di sapere che presto vedrete alcuni dei miei posti del cuore in Friuli 💙🏔️ spero che la mia regione vi sorprenda di nuovo con la bellezza delle sue montagne.