I baccanali di Abu Nuwas, a Baghdad
Libri per evadere, storie irachene, viaggi futuri e una novità
Ciao!
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Prossimi tour con iscrizioni (eccezionalmente) aperte: Iraq 26 febbraio - 9 marzo. Vedi più in basso.
C’è una bella novità nascosta in questa newsletter che spero vi farà piacere. È qualcosa che ci tenevo a dire di persona a chi ho incontrato in queste settimane negli eventi dal vivo, assieme a un piccolo regalino.
Leggendo Allah 99 di Hassan Blasim mi è tornato in mente il mio primo giorno in Iraq e un incontro che ho fatto in un bar. Ci ho riflettuto un po’ su e poi l’ho scritto. Spero vi piaccia.
A presto,
Eleonora
I baccanali di Abu Nuwas, a Baghdad
Quando entrai in quel baretto lungo Al Rashid, sotto il porticato di una delle vecchie case in legno fatiscenti del centro di Baghdad, gli unici due clienti seduti ai tavolini avevano un’area estranea, un po’ sorpresa, sul chi va là. Si guardavano intorno con circospezione ed erano insolitamente silenziosi, irrequieti. A tradirli erano i vestiti troppo stirati, il taglio di capelli meno preciso, la montatura degli occhiali e in generale un modo di fare troppo distaccato, con una punta di imbarazzo. Erano due iracheni non più del tutto iracheni, che si erano rifatti una vita altrove. Ex cittadini di un paese da cui a lungo era stato meglio scappare. Ne avremmo incontrati molti, come loro.
Non ricordo neanche più chi attaccò bottone per primo, e per quale motivo. Ma in pochi minuti eravamo già seduti tutti e quattro al tavolo vicino alla parete a vetro, da cui entrava la luce radente del pomeriggio, calda e dorata ma pur sempre invernale. Quella lama illuminava il volto di Laith attraverso le lenti cerchiate di nero, le sue sopracciglia folte e spesse, molto curate, il suo incarnato olivastro.
Aveva un giubbino di cuoio scamosciato che poteva mimetizzarlo alla perfezione nell’inverno iracheno. Il suo arabo però zoppicava, le Converse ai piedi e quel preciso modello di jeans gridavano NORD AMERICA in tutti i modi. Nihad, suo padre, invece a Baghdad ci era cresciuto, e non riusciva più a scrollarsi così facilmente di dosso una certa estetica retrò che permeava tanti dettagli di quella città. L’aveva lasciata da appena ventenne, per scappare alla leva della guerra contro l’Iran. Da lì aveva girovagato parecchio, per poi approdare in Canada, dove Laith era nato.
Dopo una vita, una vita intera, il padre tornava nella sua terra d’origine. Per Laith invece era la prima volta. L’Iraq gli era tanto alieno quanto lo era per noi due. Avevano aspettato a lungo che si potesse, che fosse sicuro, e infine erano andati. Per Nihad invece il carico di intensità emotiva era notevole. In mezzo, tra l’addio del 1980 e quel pallido sole pomeridiano di un giorno di febbraio 2024, c’era stato il finimondo.
«Attenta a cosa fotografi, la polizia a volte si insospettisce», mi aveva detto subito fuori dal locale. Avevo adocchiato una vecchia casa in legno intagliato dall’altra parte della strada, che stava letteralmente collassando sotto il suo stesso peso. L’Iraq era uno di quei posti dove recitare la parte della turista scema era spesso fondamentale. Dovevamo ritornare a indossare quell’involucro di ingenuità e prevedibilità che nel mondo postsovietico si declinava spesso nel ruolo della devushka che non sapeva, mentre nel mondo arabofono diventava una pia e modesta pellegrina sciita, o di una semplice bint miskina un po’ più contemporanea. Una ragazza da compatire.
Quel nostro primo giorno iracheno evaporava rapidamente, mentre cercavamo di calibrare gioie e timori, prendere le misure delle cose, capire quale e quanta cautela adoperare nel fare le cose, quanta confidenza dare alle persone, come non farci stirare dai tuk-tuk gialli nelle arterie trafficate e inquinatissime di Baghdad. Condividere quel brivido dell’inizio con due canadesi che, ormai estranei, tornavano laggiù fu un grande regalo. Laith era più turista di noi, mentre Nihad si muoveva nella realtà come un capodoglio affonda negli abissi. Ogni cosa era intrisa di sogni, di ricordi tra cui nuotare, senza peso.
Le chiacchiere a quel tavolino si allargavano senza argini, i bicchierini d’acqua monouso vuoti si impilavano uno dopo l’altro, i nostri panini falafel coi sottaceti fucsia erano solo briciole sul tavolo. La lama di luce si era ritirata, il sole si stava abbassando e c’erano un altro paio di cose che volevamo andare a vedere prima che facesse buio.
Chiesi al volo ad Arianna, in italiano, biascicando un po’, se andava bene invitarli con noi. La mia proposta li sollevò, scatenò in loro un entusiasmo inaspettato, e quindi, di conseguenza, preoccupò me. Probabilmente erano più smarriti di noi e, per un momento, mi balenò in testa l’impressione che ci saremmo caricate di una zavorra pesantissima. Era il loro primo giorno in città, una boccata d’ossigeno per evadere dalla casa dei parenti a sud di Baghdad. Laith era nelle mani di suo padre, che si orientava in maniera analogica in una metropoli che non esisteva più da quarantaquattro anni e che ora aveva sette milioni di abitanti. Quando proposi di chiamare un taxi con l’app Careem, Nihad mi guardò incredulo.
Io proponevo, loro accettavano di buon grado e poi Nihad si lasciava andare al fiume dei ricordi, che condivideva con noi nel suo inglese impeccabile, che non aveva più alcuna traccia di Mesopotamia. «E qui passavamo sempre tornando da scuola». «Questo monumento non c’era ancora, quando me ne sono andato. Fammi una foto, per piacere». «Ah, e lei è Kahramana! L’avete vista? L’avete vista!? La ragazza che versa l’olio in quaranta giare, è una statua bellissima, bellissima! Proprio in mezzo alla rotonda! Una leggenda, ma che dico, un vero e proprio simbolo di Baghdad!». «Ah, e ora siamo su Abu Nuwas! Che ricordi. Digli di fermarsi qui, che facciamo due passi sulla Corniche».
Ascoltare Nihad in quel primo, caotico giorno in Iraq, mi dava l’impressione di stare vivendo e leggendo un libro contemporaneamente. Con i suoi racconti, vedevo ogni cosa in maniera doppia, su due livelli temporanei distanziati di quarant’anni, di realtà e ricordo. Nihad sorrideva sotto i baffi grigi, sobrio ed elegante, da uomo iracheno stereotipico, ma iniziava ad accusare segni di stanchezza. Il taxi ci lasciò lungo uno dei pochi viali alberati del centro di Baghdad. Eravamo a due chilometri a piedi da un famoso ristorante della capitale, specializzato ovviamente in masgouf, la carpa del Tigri, orgoglio iracheno alla griglia.
Nel nostro immaginario tutto occidentale, la Corniche, il lungofiume alberato che separava noi dalla prima cena irachena, doveva essere una piacevole passeggiata affacciata sulle acque eterne del Tigri. La versione mesopotamica del lungomare alla moda di Beirut, una foresta di luci, grattacieli anni ‘90 e gli iconici scogli dei piccioni. La Corniche di Baghdad invece assomigliava più che altro a una banchina di buche, cumuli di terra, calcinacci e aiuole urbane abbandonate a se stesse, dove l’illuminazione pubblica si era arresa alle tenebre e l’area era al limite del non camminabile.
Mentre io e Arianna cercavamo di non inciampare nel buio, Nihad, che pure arrancava tra le buche e i sentierini sterrati nell’erba, sembrava invece in estasi.
«Abu Nuwas! Abu Nuwas! Ma voi lo sapete chi era? Ah, la grande poesia araba! Poesia erotica, poesia bacchica, amori omosessuali e ironia pungente! Lo studiavamo a scuola, ci faceva impazzire. Accendeva la nostra immaginazione, ci faceva innamorare della letteratura! Chissà se è un caso, e me lo sono chiesto sempre, se fosse proprio qui che a Baghdad nei miei anni si veniva per fare casino, per comprare alcol o per perdersi in avventure leggendarie».
Mentre scrivo, ripenso all’Abu Nuwas degli anni ‘90 descritta da Hassan Blasim in Allah 99. I buttafuori ubriachi, i poliziotti che affondano nelle sagome dei corpi prosperosi che popolavano i suoi bordelli, le promesse di saldare i debiti, i fumi dell’alcol, le liti amorose e altre scene di una città che è dovuta scappar via. Nel fresco e nel buio di una qualsiasi sera d’inverno, Abu Nuwas sembrava solo un parco in stato di semiabbandono e quasi deserto.
Nihad sorrideva beato nel buio. Lo guidavamo con cautela lungo un sentierino che si spingeva verso il fiume. Quando intravide le prime luci di un locale, si divincolò dal braccio del figlio e vi marciò con decisione. Voleva rivivere gli anni dell’università passati a perder tempo proprio lì, lungo il Tigri ad Abu Nuwas. D’improvviso, sembrò che la stanchezza fosse solo un ricordo lontano. Prese lui il controllo della situazione: dopotutto il vero baghdadese era lui. Si diresse dritto verso un ristorante recintato da alte barriere metalliche, alzando la voce senza voltarsi per dirci «arrivo subito, voglio solo prendermi una birra». Io ero incredula e lo osservavo colpita dalla sua improvvisa sicurezza di sé. Il distacco canadese e la diffidenza per l’ambiente circostante erano svanite. Nihad era tornato studente.
Lo accolse all’ingresso un cameriere giovanissimo, dai capelli di un rosso acceso, la pelle chiara e piena di lentiggini, il naso largo, dalle narici pronunciate. Nihad stava già chiedendo un tavolo per quattro, quando gli venne in mente di domandare se, in effetti, vendevano birra.
«Birra!?», chiese stupito il cameriere, aggrottando la fronte.
Nihad sembrava perfettamente a suo agio. Il cameriere invece era colpito dalla domanda e imbarazzato.
«Mi dispiace, signore, non vendiamo alcol in questo ristorante».
A quella risposta, fu Nihad a sentirsi stupito e contrariato. Insistette un po’, cercando di corrompere il ragazzo, che però era sincero: quel locale non vendeva alcolici, punto, non ne avevano. Gli sembrava, in effetti, la cosa più naturale del mondo. Non era così per Nihad, che volle pungolarlo un po’. Gli chiese di dov’era, come per sottolineare la sua autoctonicità e i suoi molti decenni di vita alle spalle.
Da lontano sentii la risposta del ragazzo, sommessa, quasi colpevole: «min Suria», dalla Siria.
Nihad fece un’espressione che in italiano sarebbe stata tradotta a parole con non c’è più religione. Alzò i tacchi offeso e se ne andò con un gesto della mano, senza salutare a parole. Il riflesso pavloviano che l’idea di prendersi una birra lungo il Tigri gli provocava l’aveva trasformato. Doveva assaporare quei primi anni di università e doveva farlo a tutti i costi. Era fuori controllo e noi lo seguivamo un po’ intimorite, ma anche elettrizzate dall’idea di vedere cosa sarebbe successo.
Entrò nel locale successivo chiedendo direttamente se vendevano birra. La risposta del cameriere, anche lui giovanissimo, fu identica. «Mi dispiace», gli dicevano. Nihad ribattè che eravamo su Abu Nuwas, che quello era il tempio degli alcolici e della perdizione, che non era possibile che non ne vendessero più.
Ma i tempi erano cambiati e la città non era più la stessa. Dopo qualche tentativo, i locali finirono e la Corniche tornò ad essere soltanto una gimcana di buche e cumuli di detriti che scivolavano senza grazia nel fiume, via via sempre più buia. Laith non sapeva come gestire suo padre e questo suo improvviso guizzo nostalgico, Nihad era abbattuto e camminava con le spalle ricurve in avanti, deluso più dalla città che non riconosceva più che non dalla birra mancata.
Mentre proseguivamo nel buio, su un percorso via via più accidentato e che si interrompeva bruscamente in un muretto, dal buio del giardino spuntarono all’improvviso due militari armati fino ai denti, irriconoscibili sotto due grossi caschi e giubbotti antiproiettile spessi almeno una spanna. Si diressero immediatamente verso di noi, parlandoci in inglese, con l’arma in mano. Fu tutto talmente rapido che non ebbi neanche il tempo di spaventarmi.
«Questi due uomini vi stanno importunando? Eh? Da quanto vi stanno seguendo? Come li avete conosciuti? Se necessario li allontaniamo», dissero, con aria tutt’altro che rassicurante.
Ci precipitammo a dire che eravamo insieme da tutto il pomeriggio, che li avevamo conosciuti in un ristorante, che erano padre e figlio canadesi, brave persone, che era tutto ok. Cercai di sembrare più tranquilla possibile, anche se l’unica cosa che in quel momento non mi rassicurava erano proprio quei due alieni vestiti per un blitz militare. Non credendoci, i due si piantarono davanti a Laith e Nihad, che iniziarono a spiegare con calma tutta la situazione. I lampioni ci avevano abbandonati da un pezzo e le uniche luci in vista erano quelle dei locali di Karrada, un’appendice di terra stretta in un’ansa del Tigri famosa per la vita notturna, e della Green Zone dall’altra parte del fiume.
Quando riuscimmo a scollarci di dosso i due militari, sgattaiolammo nel buio del parco per poi tornare sulla strada principale e da lì svicolare in un paio di viuzze fino al ristorante.
Qualche giorno dopo quell’incontro, ricevetti una mail con oggetto «Hello Eleonora», una riga e mezza di testo, quasi come un telegramma dettato sillaba per sillaba. «We are leaving late Sunday evening. We hope to see you before then. Nihad».
Il treno notturno arrivò a Baghdad alle 6 di mattina, in una foschia malsana che provava a virare al rosa, frenata dal grigio delle polveri sottili. L’aria era umida, quasi bagnata, e la patina metallica del treno, l’unico in funzione, luccicava nella stazione deserta. Quella mattina trovammo un hotel casuale lungo la Sadoun e poi li chiamai. Tornare a Baghdad e avere già qualcuno da ri-incontrare era straordinario e, in fondo, era un gesto d’amore reciproco. Cercammo di accordarci per andare al museo nazionale, che era però chiuso, e a dire il vero era quasi sempre chiuso senza motivo, dopo essere stato selvaggiamente saccheggiato dopo il 2003.
Così deviammo sul museo della città, un palazzo storico dalle mille stanzette, ciascuna popolata di vecchie foto, oggetti di vita quotidiana nella Baghdad d’inizio secolo scorso e una lunga infilata di inquietantissimi manichini dallo sguardo vitreo e le parrucche arruffate, piegati in innaturali pose e scene di vita. Ari ed io iniziavamo ad accusare la notte dormita male nelle lenzuola sporche del treno e la sveglia all’alba, ma Nihad aveva in viso la felicità di un bambino. Indicava foto e rievocava memorie d’infanzia, sfiorava oggetti con un sorriso tenero, confermava didascalie «sì, hanno ragione, era proprio così!» o le smentiva, polemizzando «ma cosa dicono, non è affatto vero, com’è possibile che scrivano queste falsità in un museo».
Finimmo a mangiarci un altro panino falafel in un localino semplice, dove ci cacciarono su un soppalco dal soffitto basso. I sottaceti erano fucsia come al nostro primo falafel, il tè nero e bollente, l’hummus cremoso e spalmato su un piattino rigido, in melammina. Ci guardavamo con quella sensazione di affetto e di vuoto con cui si tornano a trovare dei genitori. Ce l’avevamo fatta, eravamo di nuovo lì. Loro avevano fatto overdose di parenti, erano stati a Babilonia, di santuari sciiti non ne avevano voluto neanche sentir parlare e quella sera stessa li aspettava un aereo per tornare nel gelo canadese. Noi non sapevamo neanche da dove iniziare a raccontare quello che avevamo visto. Ci abbracciammo con la promessa di passare a trovarli, in Canada, prima o poi. Magari avremmo mangiato un falafel anche lì, in un localino sull’Abu Nuwas di Toronto. Nihad avrebbe avuto la sua birra con facilità. Anche se, probabilmente, nessuna birra al mondo avrà mai il sapore di quelle del 1980 ad Abu Nuwas.
Prossimi tour
I programmi e le iscrizioni per i tour Kukushka 2025 escono e aprono a dicembre: vi avviserò in anticipo con questa newsletter o, se volete un reminder più preciso, con la notifica di Kukushka.
C’è un’eccezione:
Una replica del tour in Iraq esteso nella settimana di Carnevale, dal 26 febbraio al 9 marzo 2025, con Arianna Cerea.
Vista la situazione tesa nell’area, anche se in Iraq ancora tranquilla, è un tour eccezionalmente con saldo caparra all’1 gennaio 2025 e saldo tour a un mese prima della partenza. Le iscrizioni sono già aperte: qui il programma e qui le iscrizioni. Vi chiediamo di iscrivervi solo se c’è reale interesse. 2290€.
Prossimi eventi
27 novembre ore 19.30, una serata per chiacchierare di Turkmenistan e poi mangiare qualcosa insieme alla trattoria popolare Arci Traverso, a Milano.
4 dicembre, un incontro nel tardo pomeriggio a Lost in Translation, il festival organizzato dalla cooperativa Ruah a Daste, Bergamo.
A febbraio 2025 uscirà il mio nuovo libro, interamente dedicato a Socotra. Da mesi ci sto mettendo l’anima dentro, con grande fatica. È la storia delle persone che fanno l’isola, che da sola farebbe il mondo intero. A presto con altre anticipazioni!
Consigli stravolti
📖 Ho letto Allah 99 di Hassan Blasim. Delirante e appassionante insieme, affilato come un coltello, spietato. Appena ti affezioni, affonda la lama senza guardare in faccia nessuno. L’immagine perfetta di quanto male fa la guerra alle persone anche dopo, dopo le esplosioni e i crolli di palazzi. Di quanto non ce la si scolla via per anni, decenni, di quanto continui a tormentare chiunque, in un modo o nell’altro. Ambientato in Iraq post invasione americana, a Baghdad soprattutto, ma anche nella gelida Finlandia. Consigliatissimo.
📖 Ho finito Il campo delle pere, di Nana Ekvtimishvili, ed. Voland e tradotto dalla penna immaginifica di Ruska Jorjoliani (a sua volta autrice dei bellissimi La tua presenza è come una città e Tre vivi, tre morti). Ekvtimishvili è la regista di In bloom, un film di una poesia indicibile che ho avuto la fortuna di poter vedere al Trieste Film Festival qualche anno fa, quando il focus era sulle registe georgiane (c’è per intero su YouTube e VK, ma è tutto in georgiano senza sottotitoli). Ecco, dalla regia alla penna Ekvtimishvili mi è piaciuta moltissimo. Il libro alterna dolcezza infinita e spietatezza quasi noncurante, asetticamente normalizzata, che trasuda inequivocabilmente anni ‘90 in Caucaso. Non fatevi ingannare dal “un orfanotrofio alla periferia di Tbilisi nella Georgia postsovietica”, c’è un microcosmo nel convitto di via Kerč e assolutamente nessun pietismo. Bellissimo, consigliato.
📖 Finito anche Il cristo iracheno. Sconvolgente e spiazzante, ma a tratti un po’ contorto e difficile da seguire. Non amo il genere un po’ surrealista, ma è un buon libro. Ho preferito Allah 99 di Blasim.
Ho ricevuto in regalo da Utopia Libro senza nome di Shushan Avagyan, che è in prevendita fino a domani sul loro sito. Finalmente (!!!) possiamo leggere tradotta direttamente dall’armeno orientale la letteratura contemporanea di un Paese piccolo, ma che ha prodotto un numero di talenti artistici in tutti i campi davvero impressionante - dalla musica agli scacchi, dall’arte alla scienza alla tecnologia, fino ovviamente alla letteratura. Un libro pubblicato a Erevan come samizdat nel 2006 e che resuscita dall’oblio le parole e le storie di due scrittrici armene novecentesche oggi dimenticate. Confortante vedere questi fari di luce nell’epoca oscurantista in cui ci troviamo a vivere. Mi ci tuffo e vi aggiorno, voi non perdetevelo.
🎧 Ho sentito l’incredibile storia di quando San Marino eleggeva socialcomunisti e per questo l’Italia ci organizzò un colpo di stato. Un piccolo podcast, carino, di The Submarine
🎵 Al DiParola Festival abbiamo creato una nuova tendenza parlando dei sempreverdi Kino. Se leggete questa newsletter e non li conoscete, a questo punto è un problema grave a cui bisogna rimediare. Iniziate da qui.
✍🏻Sempre sul DiParola Festival, ho tenuto un talk sul linguaggio etnografico, e in particolare sulle differenze tra esotico e esotismo e sui retaggi coloniali che il linguaggio del mondo del turismo si porta dietro, consciamente o inconsciamente. Ci ho lavorato un bel po’ e la registrazione è disponibile facendo una donazione al festival. Scrivetegli se la volete recuperare, insieme a tanti altri talk davvero di qualità sul linguaggio chiaro e accessibile.
✍🏻 Kseniya Filimonova del canale Telegram Non solo Dostoevskij ha già fatto e ripropone un corso sul rock russo, secondo me è un’opportunità da non perdere, tenetela d’occhio. Iscrizioni aperte fino al 30 ottobre.
📰 Da leggere: la newsletter di Donata Columbro sull’uso dell’AI dall’IDF a Gaza. Inquietante, disturbante. Più volte al giorno mi sento come se ormai la realtà fosse un film distopico.
📰 Ho letto avidamente la newsletter di Natalie Norma Fella sulla solitudine, in combo con un bell’articolo uscito su Internazionale. È una newsletter privata, pensata per poche persone che hanno realmente voglia di leggerla.
📰 Mi sono iscritta alla newsletter settimanale a tema outdoor Semi-rad di Brendan Leonard, lui fa davvero spaccare ed è probabilmente geniale.
🎨Devo ancora andare a vedere la mostra dell’artista uzbeca Saodat Ismailova all’Hangar Bicocca, me ne hanno parlato benissimo.
🎥 Visto al cinema L’anno nuovo che non venne mai, film rumeno presentato alla Biennale di Venezia, sulla caduta di Ceaușescu nel 1989. Davvero bellissimo, assurdo e a tratti esilarante, ciliegina sulla torta l’averlo visto in lingua originale al cinema Palestrina di Milano. Forse è ancora in giro in qualche cinema indipendente, tenetelo d’occhio perché merita davvero.
🎥 Sempre al cinema ho visto anche Limonov: The Ballad, di Serebrennikov. Neanche lontanamente comparabile col libro di Carrère, che avevo amato a suo tempo. È una narrazione estetizzata, romanticizzata e accuratamente ripulita della figura controversa di Limonov, che ne esce solo con la spocchia del poeta maledetto. Di per sé non un film tremendo, ma per chi non conosce il personaggio credo il risultato sia un po’ fuorviante e confuso. La sua esperienza politica è un breve flash sul finale che peraltro omette momenti di una gravità inaudita come la partecipazione alla guerra in Jugoslavia lato serbo.
🎵 Sto ascoltando Fairuz come non mai. Ogni giorno col pensiero a Gaza e in Libano. Ripenso spesso a quella ragazza di Beirut che avevo incontrato in una piscina naturale a Socotra un anno fa, pochi giorni dopo il 7 ottobre 2023. Era senza internet da giorni. La prima cosa che mi aveva chiesto era «è già iniziata la guerra in Libano?». Era forzatamente in vacanza lontano da tutto e tutti, in preda all’ansia per i suoi cari. Eccoci qui, un anno dopo.
Per oggi è tutto.
A presto,
Eleonora
Ciao Eleonora, il racconto audio è magnifico, mi ha fatto venire la pelle d'oca. È stato anche molto apprezzato dai miei figli di 6 e 9 anni. Grazie e buona giornata, Paola
E come sempre... GRAZIE, Eleonora <3