🌦️ Di pioggia, tigli, un amico che non c'è più e di Armenia a settembre
Torno da voi per parlarvi di una persona, e di un'idea per settembre
Lascio la finestra aperta un po’, perché entri l’umido e il fresco della sera. Stamattina, i primi due messaggi con cui mi sono svegliata dicevano «PIOVE!». Ho gioito al leggero scrosciare della pioggia sul tetto. Ma in che tempi viviamo: mi ricordo di quando Babi, un’amica di Samarcanda, mi raccontava di quanto amasse la pioggia perché era un bene così raro nel deserto. Io, invece, ricordo gli acquazzoni colossali presi tanti anni fa in bicicletta a novembre, o a febbraio, come sogni da un’altra vita. Si tornava a casa fradici fino al midollo, gli occhiali appannati, i capelli che gocciolavano nell’ascensore, la copertura della bici più inzuppata della bici stessa.
Stasera invece l’umidità è solo accennata, e trasporta l’ultimo profumo dei tigli nella stanza, insieme al ronzare di qualche falena e agli strani gorgheggi degli uccelli. Da qualche parte, qualcuno manda una musica che conosco. È De Gregori? Ah, no! Sono i violini di Canzone di Lucio Dalla…
E ti direi spegni la luce
Che il cielo c'è
Pensavo che non ci saremmo sentit* fino a settembre, e invece eccomi di nuovo, spaccata tra la leggera euforia che i mesi di maggio e giugno mi danno, e la preoccupazione per lo scatafascio a cui assistiamo tutto intorno a noi - inermi.
Torno con una mail anche perché ho un colpo di testa da annunciare. Ho deciso di organizzare un piccolo viaggio in Armenia a settembre, dal 10 al 17, e vedere come va. Prima o dopo riesco, e quindi questa è l’unica possibilità. Tutte le info e le altre novità più sotto.
Va’ per le strade tra la gente…
Ma dicevamo, dei tigli, della pioggia, di Lucio Dalla.
L’ultima volta che ha piovuto come si deve era il 7 giugno. Quel giorno un amico se n’è andato e un’amica è arrivata, finalmente, dopo anni di tentativi per ottenere un visto Schengen, al di qua della fortezza. Lo stesso giorno, sotto lo stesso acquazzone. Una perdita lacerante e una gioia immensa, una vittoria, al contempo. Alla prima notizia non ero minimamente preparata, e quando l’ho letto in messaggio, ho pensato fosse uno scherzo. Perché non poteva semplicemente essere. Non per lui, almeno, non per Mariamo.
Il suo pensiero torna a intermittenza, certe sere, come un fulmine che rimette tutto nella prospettiva giusta - siamo formichine solo di passaggio, in questo momento per giunta spaventate e assetate. Un battito di ciglia casuale e ininfluente. Un guizzo da vivere al massimo, fino in fondo, senza filtri.
Di Mariamo parlavo e scrivevo sempre, specialmente sul canale Telegram. Ora sento che non basta più - devo urlarlo. Perché lui era la formica più piccola di tutte, e più fiera di esserlo. Era libero e di passaggio come una cometa in una di quelle stellate di Socotra che ti accecano. Iconico, ribelle e inafferrabile come lo Scorpione quando sorge a metà della notte, non appena il nemico Orione se ne va.
Se Socotra fosse una persona, sarebbe Mazen - che tutti chiamavano, chissà perché poi, Mariamo. Occhi immensi e dolci, lievemente strabici, e una grossa cicatrice in mezzo alla fronte, ricordo di un sasso lanciato da qualche compagno di giochi d’infanzia. Qualcuno gli aveva regalato due occhiali fucsia a specchio, di cui andava così fiero, e che gli stavano tremendamente bene. Gli davano un’aria folle e geniale alla Ray Charles, perfettamente compatibile col suo talento musicale innato. Una voce vibrante e intensa, capace di parlare a chiunque nel profondo, un senso del ritmo impareggiabile. Quando suonava lui, c’erano le feste migliori, e tutti i socotrani accorrevano a sentirlo battere sulle pelli di tamburo, a cantare, a ballare. Mariamo non si era sposato, che a 36 anni è un fatto quasi più unico che raro a Socotra. E mi aveva detto che stava iniziando a pensarci. Ma onestamente ce lo vedevo poco a metter su famiglia, dopo una vita vissuta a cento all’ora con la sua moto – una vecchia Baotian cinese scassata –, o col suo pickup beige con la radio gracchiante e i sedili sfondati. La guancia piena di qat, una foglia psicotropa che si mastica nel Corno d’Africa e nella penisola arabica, e una sigaretta sempre accesa, per tenere lontano l’alcol illegale di scarsissima qualità, e che per l’Islam è haram. Per gli amici Mariamo era mangheina, un po’ pazzo, mentre per i suoi fratelli e familiari era shker bene, molto bravo. La risata senza freni, euforia da vendere, un look autenticamente rock che faceva tendenza.
Ricordo quando dovetti sgridarlo, un po’ per finta un po’ seriamente, durante il mio primissimo tour completamente da sola: ad oggi il peggiore, con quattro irlandesi del nord, di cui uno di una pesantezza e arroganza estrema, che a tratti avrei voluto prendere a padellate in testa. Erano arrivati a Socotra con 4.5lt di whiskey, imbarcato illegalmente in stiva dentro delle borracce. Quattro litri e mezzo, in quattro, per una settimana. Che, a loro detta, erano quantità assolutamente normali. Una delle bottiglie, invece, era nella sua confezione tutta speciale: whiskey scozzese invecchiatissimo e pregiato, preso in aeroporto prima di imbarcarsi. Era due giorni che me la menavano su quanto costasse e quanto fosse buono (senza che mai abbiano anche solo pensato di offrirlo, sia chiaro, eh!): 60 euro di whisky che, una sera, lasciarono stupidamente sul tavolo comune prima di andare a dormire sul suono delle onde della spiaggia di Arher.
Sorvolerò sulla mancanza di rispetto di bere e sbevazzare senza ritegno e lasciare in giro dell’alcol, in Yemen (!), mica a Dubai, in presenza di musulmani molto praticanti che stanno lavorando per te.
Al mattino, una di loro mi venne a cercare con il panico dipinto in volto: la bottiglia di whisky era vuota. Qualcuno se l’era bevuta durante la notte.
Era il mio secondo giorno come guida sull’isola e già c’erano problemi. Gli irlandesi erano sotto shock e farfugliavano tra loro, le sopracciglia aggrottate. Io, dentro, me la ghignavo, ma sapevo già chi andare a cercare per rimediare quantomeno una pantomima interessante che tranquillizzasse i ricchi irlandesi per l’immane perdita morale ed economica subìta. Salvare me stessa, salvare l’agenzia, salvare lo staff. E, in qualche modo, salvare anche Mariamo.
Andai da Mariamo guardandolo con occhi offesi. Mariamo, ma cosa mi combini? A-shker, a-shker Mariamo. Non è bello, non è bello, Mariamo. Agitavo la preziosa bottiglia vuota sotto il suo naso.
Lui mi guardava coi suoi occhi immensi dal guizzo folle, rigidi, ilari e innocenti insieme come quelli di un bambino. Erano immobili e mi fissavano senza sbattere le ciglia. Come a dirmi: «ti prego, non farmi fuori». A quegli occhi non sapevo resistere. Era come un bambino che prendeva coscienza del danno dopo aver mangiato una torta intera di nascosto, e che ora aveva mal di pancia, ma che avrebbe negato ad ogni costo, anche davanti all’evidenza.
Gli feci un discorso sulla fiducia, sulla serietà sul lavoro, sul rispetto, ma gli occhi rimanevano immobili: lo stavo facendo più per accontentare gli irlandesi che per lui. Mariamo negava, agitava le braccia, faceva l’offeso per l’ingiusta accusa. Adnan traduceva con gli occhi abbassati, per coprire l’amico. «Dice che ha bevuto solo un goccino che gli ha offerto Joanne ieri sera, nient’altro».
Poi, la prova finale. Lo presi per la maglietta e gli annusai il collo. Puzzava di whisky da far schifo. Mariamo negava ancora, dicendo che era impossibile.
Al che l’ebbi vinta con un’argomentazione molto semplice: «Mariamo, sono europea, so quando uno puzza di alcol da far schifo».
Ottenni delle scuse formali, gli irlandesi perlomeno si calmarono, ma Mariamo, dopo neanche dieci giorni di lavoro insieme sull’isola, era già diventato il mio preferito. Un passato da alcolista, ma anche un paladino della giustizia sociale.
Su Mariamo e sulle geniali follie che ha combinato in tre mesi e mezzo di lavoro sempre fianco a fianco potrei scrivere un libro intero. O uno sull’effetto catalizzatore che aveva sulle persone intorno a lui. Un padre fiero e apprensivo, che parla un russo fluente grazie ai corsi dell’Istituto di cultura dello Yemen del Sud comunista, con cui ho intonato una katyusha - la voce incrinata dalla nostalgia e dall’emozione. «Erano trent’anni che non parlavo russo con nessuno», mi disse, ringraziandomi. Ero andata in visita da lui, in un sobborgo orientale di Hadibo, per apprendere tutto il possibile sull’apicoltura a Socotra, che si svolge solo ad aprile e a ottobre. Agli occhi dei suoi numerosi fratelli più piccoli, invece, Mariamo era un eroe. Quando arrivava con la sua moto e gli occhiali da sole, cacciando un urlo da star del jazz, era semplicemente il re. A quelli dei suoi molti amici - chi non conosceva Mariamo a Socotra? - era semplicemente lo spirito del luogo, il miglior musicista che, canzone dopo canzone, radunava tutti e li faceva cantare.
È stato Mariamo a comporre la mia canzone socotri, Nora. In arabo, su una melodia socotri. Nora, Nora ya Nora. Nora, Nora ya Nora. Ana warak fi alaradh wala fi alsma ya Nora.. hata wa law kenti ala satah alqamar ya Nora. Ana warak Nooora ana warak... Che lui cantava con talmente tanto trasporto, che in poche settimane si diffuse moltissimo tra la gente. Anche donne di remoti villaggi mi salutavano intonando la prima strofa.
Potete ascoltare una registrazione di Mariamo che la canta, con melismi commoventi, a questo link.
Ecco, da poco più di due settimane Mariamo non c’è più. È bastata una notte, da solo, in moto, lungo la vecchia e dissestata strada che porta al sud. Mariamo era un inguaribile romantico, l’asfalto non gli piaceva. Al funerale è venuta tantissima gente: mi hanno mandato le foto. Come prima cosa, quando tornerò a ottobre, chiederò che mi portino dove è sepolto, per dargli un ultimo batti cinque, gridargli sessanta minuti sessanta nuno (un vecchio scherzo che ci facevamo sempre) e lasciargli, perché no, una sigaretta, una foglia di qat e una goccia di whisky da 60 euro.
I prossimi eventi
Il 9 e 10 luglio, e il 16 e il 17, facciamo una grande avventura per bivacchi in Val Grande. Le iscrizioni sono andate sold out dopo letteralmente pochi minuti, anche per la seconda data. Magari, se non sarà brutto, potremo pensare di replicare qualcosa di simile a novembre, quando torno.
Il 30 agosto, alla sera, sarò a Udine con Angelo Zinna per il festival Vicino/Lontano - Premio Terzani, e credo mi fermerò un paio di giorni per gironzolare per la zona - Il Friuli mi ha sempre ispirato davvero tantissimo, e forse sarà la volta buona che potrò scoprire qualche bel posto. Il programma non è ancora uscito, ma intanto segnatevi la data :)
A fine settembre, se tutto va bene, avevamo una mezza idea di fare una serata a tema Georgia io e Gianluca Pardelli (di Soviet Tours) in un posto incredibile di Livorno, che mi è stato descritto come una via di mezzo tra un circolo di scacchi e un covo di pirati. In ogni caso, non vedo l’ora.
Prossimi viaggi
Ed ecco la novità più succosa.
Alla fine mi sono decisa per organizzare un viaggio in Armenia di 8 giorni dal 10 al 17 settembre. So che è difficile, so che non ci sono vacanze in mezzo, ma mi avete incoraggiata, e quindi eccomi qui.
Tutte le info sul viaggio sono pubblicate qui.
Il viaggio di capodanno era stata poesia e l’idea di ripeterlo (in una versione leggermente più estesa, perché sarà ancora piena estate) mi elettrizza. Sarà anche l’occasione per tornare sul leggendario caravanserraglio di Selim, uno dei luoghi più eterni e mozzafiato che abbia mai visitato, e nella valle di Yeghegis, dalle montagne spettacolari e la storia incredibile. Un villaggio così piccolo eppure così caucasico. Storicamente abitato da armeni e da una misteriosa comunità ebraica medievale, fu poi popolato da azerbaigiani, a loro volta fuggiti e sostituiti nel 1988 da nuovi armeni scappati dal sanguinoso pogrom di Sumgait, alle porte di Baku. Nonostante i capovolgimenti storici che la regione ha vissuto, rimangono ancora tutti e tre i cimiteri. Quello ebraico, sul fondovalle, poco oltre il fiume. Quello azerbaigiano, a mezzacosta, con le lapidi spaccate dalla rabbia e le mucche al pascolo, e quello armeno, con i suoi khachkar e le sue lapidi scolpite come a fumetti, in cima alla collina.
Le iscrizioni per voi sono aperte già da ora. Per gli altri aprono stasera alle 19.
Consigli stravolti
Anche questa volta, pochi consigli ma buoni, e più stravolti che mai. Oggi ad altissimo contenuto di nerdaggine.
Articoli e ancora articoli. Questo giugno è stato molto produttivo sul blog: ho scritto tante cose che volevo scrivere da mesi senza averne avuto il tempo. C’è una mini guida su come dare una chance a Batumi, la bizzarra città a metà tra Las Vegas e Dubai sul Mar Nero georgiano, che però vi assicuro ha anche un’anima. Ho scritto anche del nostro itinerario molto sovietico in Estonia e più in generale nelle Repubbliche baltiche, sulla base del tour bellissimo fatto l’estate scorsa. Ci ho messo il cuore e un botto di approfondimenti.
Una canzone: scrivendo di Estonia, sono sprofondata nel loop della musica estone, che è (ve lo giuro) ficherrima. Mi dico sempre che se certi artisti dell’est fossero stati anglofoni oggi sarebbero famosi come Kate Bush, Bob Dylan o Kurt Cobain. Dal punk sfegatato dei J.M.K.E. che urlavano Tere perestroika nel 1987, alla voce magnetica dell’icona sovietica Velly Joonas, fino a quella onirica di Reet Hendriksson, che cantava, in esilio, canzoni popolari estoni che sembrano le ninnananne più dolci del mondo.
Un festival: se qualcun* di voi stava ventilando l’idea di andare in Estonia, passate da Viljandi durante il Estonian Folk Music Festival a fine luglio. Hanno anche una playlist su Spotify.
Un podcast: sempre quegli schizzati di Viljandi hanno prodotto un podcast, Regisong, di ascolto e analisi di canzoni popolari estoni ormai quasi perdute e dimenticate, che è un lavoro di importanza antropologica universale che parla all’anima. L’host è Indrek Koff, con la sua voce pacata e il bizzarro accento estone. Ma che cos’è una regisong: è l’espressione della tradizione orale e musicale del popolo estone attraverso i secoli. Sono canzoni che uniscono le persone in un canto spontaneo, anche se non le si conosce, e “trasmettono la saggezza e la conoscenza di migliaia di anni sulle strategie di sopravvivenza e sulla cultura degli estoni”. Gli episodi sono brevi, ma complessi, e richiedono un ascolto concentrato. Prima si ascolta la regisong, poi l’analisi. Molte analisi le ho trovate illuminanti, confortanti, tremendamente attuali. Koff è bravissimo ad interpretare, con grazia e una sensibilità rara, i temi e le relazioni profonde tra di essi e il nostro mondo. È stata una scoperta meravigliosa. Gli episodi sono tutti belli, ma alcuni sono speciali. Mi è piaciuto molto quello su Volkonski e sulla guerra francese, quello dedicato alla guerra russo-turca, in cui i ragazzi estoni venivano mandati a combattere, e quello sulle foreste.
Un reportage: impressionanti foto e testo dal reportage di Daniele Bellocchio per InsideOver sulle miniere del Congo DRC, dove si estrae la cassiterite, essenziale per la produzione tecnologica. Sconvolgente.
Un’altra canzone: se volete sognare d’Armenia, sentite kani vur djan im del leggendario vate Sayat Nova, interpretato da Jordi Savall. Sublime.
Libri: gli amici di Enrico Damiani Editore mi hanno mandato Mindful Eating di Jan Chozen Bays, fresco di stampa, che credo mi piacerà (e servirà) moltissimo. Tlon invece mi ha mandato Donne in viaggio. Storie e itinerari di emancipazione. Il segnalibro dice “A tutte le viaggiatrici, esploratrici, scopritrici, che non si farebbero così tante domande se fossero uomini. Questo libro è stato scritto per non portarselo mai dietro dopo averlo letto”. Sembra scritto apposta per me :) esce il 29 giugno, ora è solo in preordine. Io in realtà sono ancora tanto impantanata quanto rapita dalla profondità sconcertante dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Me lo tiro avanti da mesi, ma certe pagine sono boccate d’ossigeno necessarie.
Per oggi è tutto. Vi abbraccio forte.
Eleonora