💡Da una Beirut senza luce a una KULT-Transnistria a settembre
KULT, Cemento, voi, Angelo e me in Transnistria dal 12 al 17 settembre
Ciao!
Questa è Pain de Route, la newsletter più imprevedibile dell’Est, di Eleonora Sacco, che poi sarei io.
C’è una grande novità , che vi anticipo qui velocemente. A settembre, io e Angelo Zinna guideremo un piccolo viaggio in Transnistria sulle tracce dei nostri podcast Cemento e KULT. Tutte le info più sotto oppure sul sito di Cemento. Le iscrizioni sono già aperte.
Uso invece questo spazio per raccontarvi un po’ di Libano, dove ho passato un po’ di tempo e vicissitudini varie a maggio. Tornare quest’anno dopo il primo impatto nel 2021 è stato strano, spesso sconvolgente. Ne scrivo sotto.
Piccola cosa così: siete quasi 3000 iscritti a questa newsletter che esce quando capita raccontando quello che capita e niente, mi sembra incredibile. Inoltratela a chi potrebbe piacere, o, se avete cambiato idea, potete sempre disiscrivervi più in basso.
Beirut, il buio e una lampadina
Jounieh, giugno 2021
Quando poi ci sono arrivata davvero, a Beirut, quello che inizialmente mi ha mangiata da dentro, svuotata e ribaltata, è stato il buio inarrestabile di quella città . Buio di strade e buche e vetri e calcinacci, tutti i lampioni spenti, non una lampadina accesa in giro, non il ronzio di un generatore. Buio del mare senza barche, poche luci giusto a orlare la costa, un mare nero e tranquillo, senza isole. E il fumo e buio insieme dei cassonetti incendiati durante le proteste, prima il fuoco e poi la cenere. Tutto nero come il Monte Libano sempre alle spalle, nero di una cena al ristorante dove all’improvviso salta la corrente - e nessuno ormai se ne stupisce più. Il nero profondo al fumo di shisha a Bourj Hammoud, il nero persino di Zaitunay bay in blackout, il nero di un’intera città nel buio più totale. Il respiro rallentato, quasi impercettibile, di un coma profondo che trascina ogni cosa.
Quella prima notte mi sveglio di soprassalto, agitata, le lenzuola appiccicate alla schiena sudata. Il biiip del condizionatore di qualche ora prima significava una cosa che dovevo imparare subito e in fretta: un altro blackout. Il milionesimo per la città , il primo per me. Non c’è elettricità in tutto il quartiere, forse anche in tutta Beirut, o magari di gran parte del Libano. Saltano le centrali, salta ogni cosa qui, ormai ci si aspetta di tutto. Se torna, l’elettricità arriva alle nove di mattina, tutto il resto può aspettare. Spalanco le finestre per far entrare un po’ d’aria, ma Beirut a giugno è umida e afosa, senza vento. Aspiro l’aria ferma a pieni polmoni senza sollievo: sembra di inalare un aerosol di smog caldo. Sotto la mia finestra, sul balcone, la micina inizia a lanciare lamenti strazianti. Ma che vuole, a quest’ora? Uno sciame di zanzare invade la stanza istantaneamente - è l’inizio della fine, non aspettavano altro. È buio pesto su rue Gouraud. Non c’è luce nelle finestre dei vicini. Dormono? Cercano un filo d’aria come me? Si dimenano nell’afa e nel sudore? Forse sono abituati. Non un lampione, una macchina, neanche il fanale di un motorino sulla strada. C’è solo un’insegna, giù in fondo: devono avere un generatore che tiene acceso quel neon dalla luce bianca e smorta.
Vado in cucina per cercare qualcosa di fresco da bere. Non c’è niente in frigo, che tanto è staccato, così mi riempio un bicchiere d’acqua tiepida dal boccione di acqua potabile. Ho la nuca sudata, la testa in ebollizione mi spinge sull’orlo del delirio, decido di buttarmi sotto la doccia per provare a rinfrescarmi un po’, ma l’acqua non esce. Il rubinetto emette solo quel rumore sordo e abortito di quando tutto è in secca. Anche le pompe sono elettriche: niente elettricità , niente acqua. La finestrella del bagno affaccia sulla collina, verso la gentile Ashrafiyeh. Da dietro il vetro della doccia, sembra un quadretto idilliaco, illuminato dalla luna. Mi ci avvicino piano piano, per vedere com’è Beirut che dorme, in quella mia prima notte libanese, che espressione ha quando si abbandona al sonno. La luna profila ogni edificio con grazia, ma non c’è una singola luce davanti a me, in tutta la città . «Non dorme, Beirut. Beirut è morta», penso. Gli edifici sembrano svuotati di ogni soffio vitale. Un’intera città nel buio più totale. Mi prende l’angoscia, vorrei svegliarmi, ma sono già sveglia.
Ramlet Al-Baida, Beirut, 2021
Le prime notti a Beirut, nel 2021, sono state tutte così. Troppe zanzare, un caldo da star male, quel buio postatomico che non dimenticherò mai. La città annaspava in una crisi economica che è stata definita tra le tre più gravi della storia recente, tra code chilometriche ai benzinai in cerca di carburante, sparatorie varie e proteste improvvise, cassonetti incendiati, blocchi stradali, penosi tentativi di formare un governo e persino un mezzo colpo di stato militare. Non era passato neanche un anno dopo l’esplosione di 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio nel porto di Beirut. Che ha ucciso 218 persone, ne ha ferite migliaia e ha lasciato l’intera città in rovina. Come dopo una guerra civile. Solo che in Libano una guerra civile c’era già stata da non molto - e lunga ben quindici anni.
Da allora il Libano si è stabilizzato in questa situazione di profonda crisi, dove chi guadagna in dollari si gode sfacciatamente la vita in ristoranti chic tutto sommato a buon prezzo, gira in SUV che bevono come marinai scozzesi e vola avanti e indietro dalle sue ville d’oltremare, mentre tutti gli altri arrancano in un caos che sembra sempre pronto per esplodere ma in qualche modo non lo fa. Ogni giorno, in bilico, non lo fa.
Il Libano che ho ritrovato è stato in qualche modo confortante: quella situazione di precarietà costante, di miccia accesa, se n’era andata. Ma è stato soprattutto sconfortante, perché, nella stasi, la situazione in realtà non ha fatto altro che peggiorare, la lira libanese svalutarsi in picchiata, i prezzi salire vertiginosamente. Chi non ce la faceva prima continua a non farcela ancora oggi. L’abitudine annacqua ogni miseria e la vita va avanti in qualche modo.
Ma c’era luce anche questa volta, e molta. Tanto buie le notti, quanto sfrontatamente fioriti e abbacinanti i suoi giorni. Campi di luce che non trova ostacoli a Tiro e alle sue rovine. Mare cristallino sezionato da lame di luce a Batroun. Fasci di luce conici nel suq di Sidone, fari teatrali sull’ocra venduta a bordo strada, sugli à moli acerbi da mangiare col sale per sferzarne l’acidità . Luce che si riverbera nell’onda di finestre di Tripoli, suadente e cristallina, di archi eleganti e hammam e vecchi cinema dalle poltrone italiane e dischi volanti in cemento. La luce abbagliante di Baalbek, che è troppa per due occhi soltanto. Quella polverosa e crepuscolare tra gli intonaci cadenti del Palmyra Hotel, che è storia aggrappata a nient’altro che se stessa - come quei minuscoli musei caucasici d’alta montagna, ultimi baluardi di civiltà scomparse, salvate ogni giorno solo dai loro fedeli custodi.
Tempio di Bacco, Baalbek, 2021
La luce di Shatila, opaca e pesante, invece schiaccia un po’ tutti allo stesso modo - le domestiche nigeriane che contrattano un chilo di tonno e quelle etiopi nel loro velo bianco appena appoggiato su uno chignon di ricci crespi. Le madri palestinesi, ormai nonne di baracche su baracche, si trascinano nella calura sulle solite strade, sempre più strette e sudicie, che hanno visto l’irripetibile. Una mucca dorme accasciata in una discarica a cielo aperto, che non è altro che una baracca sventrata, che nessuno verrà a ripulire. Il sole disegna uno zigzag di luce sulla spazzatura proiettando i tetti irregolari degli edifici del campo. Cammino veloce lungo una via che non ha nome, circondata da castelli di mattoni in cemento grezzo a due, tre piani, chi più ne ha più ne metta, decisa a non farmi notare troppo: sfuggire via, passo dopo passo da nord a sud, come se non fossi realmente lì, come se nessuno in fondo mi vedesse. Omar invece mi vede eccome. Accelera il passo per tenere il mio, quasi corriamo insieme, fianco a fianco, una sfida tra fratelli d’adozione per il tempo di una passeggiata attraverso il campo. «Hello!», butta lì, facendo capolino. Mi tende la mano e sorride, gli occhi azzurri pieni di luce. L’alibi è sempre pronto, non sbiadisce mai. Al «what’s your name?» rispondo senza esitare. «Nora al Hamed», Omar ride e un po’ non ci crede. «Wallahi!», lo giuro!
Cammino veloce, Omar proietta più che può in avanti le sue gambe di dieci anni e tiene il ritmo. Ora con me ha un’altra international friend, mi dice, dei molti che ha. Capirsi è una gioia grande, che getta luce tutto intorno. Lui col suo piccolo inglese, io col mio piccolo arabo socotri. Siamo pari. Siamo amici. Basta questo. E di dove sarebbero questi international friends? «Min Amerika wa min Korea». Li ha conosciuti a scuola. «Non sei di Shatila, vero? Ente min ayn?». Gli occhi di Omar si fanno grandi e seri, con una punta d’orgoglio. «Ana min Suria. Min Erbil». Siriano, chiaramente, di Erbil.
Tengo il passo veloce, sguscio qui e lì tra le bancarelle del mercato e le anche possenti delle nonnone chine a soppesare la frutta. Omar non mi molla. Deve sapere una cosa, e se gliel’ho chiesta io, ora può chiedermela lui. Va bene sono italiana, ma che ci faccio a Shatila? Dove sto andando? Qua bisogna vuotare il sacco. Ho imparato da poco la costruzione grammaticale: «beit sadiq». A casa di un amico, non vive lontano, vive laggiù, due strade oltre l’incrocio. Probabilmente mi sono spiegata malissimo, ma Omar è soddisfatto: ora ha più senso. Mi lascia la mano con un sorriso largo, generoso. «Sorry, now I have to go. Bye, Nora!». Mi sfugge tra le mani, poi dagli occhi, dietro un vicolo buio laterale, senza fare in tempo ad acchiapparlo per un secondo di più. Un Omar non l’avevo preventivato. E ora come continuo la strada, da che parte devo andare? È facile perdersi nei campi palestinesi che ormai sono campi anche di tutti quelli che non hanno niente. «Ma’salama, Omar!», dico ormai a nessuno, nella strada affollata ma senza fretta, tra sole torrido e ombre profonde. Com’è venuto se n’è andato, alto come il mio gomito, agile come un grillo, un quadernino sotto il braccio. Qualcuno, per un momento, aveva schiacciato un interruttore nei vicoli stretti e bui di Shatila.
KULT-viaggio in Transnistria
© Gianluca Pardelli
Angelo ed io torniamo dopo tanto tempo con una novità che no, non è (ancora) una nuova stagione di Cemento o un nuovo podcast, ma un piccolo viaggio insieme: noi due e un gruppetto di voi in Transnistria, dal 12 al 17 settembre, con arrivo e ripartenza da Chișinău.
Un viaggio sulle orme di KULT e delle storie che vi abbiamo raccontato in Cemento: dai traffici improbabili della Sheriff al cognac transnistriano spedito nello spazio, fino a ulitsa Kavriago a Tiraspol e Bendery, la città tutt’ora gemellata con Cavriago, in Emilia Romagna.
Mentre la Moldavia agricola porta a casa la stagione estiva, la Transnistria industriale, appena di là delle anse del Nistru, continua indisturbata la sua vita al cemento, all’ombra di statue un po’ vuote, tra Soviet supremi, ricorrenze intramontabili, fattorie collettive e piccole case della cultura.
La Transnistria era un posto dove tornare: provincia delle province dell’Impero, fossile del passato, metro del cambiamento dei nostri tempi. Striscia ambigua al confine con l’Ucraina, scheggia filorussa a ovest, dimenticata o forse no. E così è successo: da Cemento e Kult nasce un viaggio di gruppo in Transnistria. Vogliamo tornarci insieme per scrivere un altro capitolo di Kult, sul posto, andando a cercare un pezzetto di Cavriago dall’altra parte della cortina di ferro, a Bendery.
Per chi cerca storie complesse e controverse, la Transnistria è il buco nero ideale, «dove l’Unione Sovietica non è mai caduta», titolavano i giornali. Sotto la patina di nostalgia ci sono molti strati da scavare: traffici illegali di ogni sorta, monopoli di stato, amori (non?) corrisposti per la Russia, depositi di armi, conservazione maniacale di oggetti ed estetiche sovietiche.
Partiremo a settembre alla scoperta di questo luogo ancora diviso, tra est e ovest, tra passato e presente.
QUANDO, QUANTO, COME
La nostra piccola esplorazione oltreconfine, in Transnistria, con partenza e arrivo da Chișinău, sarà dal 12 al 17 settembre.
È organizzata da Soviet Tours e costa 890€.
Itinerario completo sul nostro sito.
Per partecipare compila il modulo di iscrizione cliccando qui sotto. Vi ricontatteremo più avanti per confermare la vostra iscrizione.
Altri eventi e altre novitÃ
Questo venerdì vado in Friuli in esplorazione delle valli dove si parla la misteriosa lingua resiana. Due notti in tenda, l’acqua contata alla goccia, voglia di riprendermi un po’ di terra sotto i piedi, di dormire male e di vivere l’energia di un gruppo e della montagna. Non vedo l’ora. Spero riorganizzeremo qualcosa del genere in autunno, in Friuli o nell’ovest che bazzico di solito.
Dal 29 settembre all’1 ottobre io e Angelo teniamo un workshop al festival di Internazionale a Ferrara. Ci sono 30 posti soltanto, costa 155€ e sono 9h di attività spalmate su tre giorni. Sarà bello e cementoso, promesso.
Sempre a fine settembre probabilmente riporteremo KULT in tour, questa volta probabilmente a Roma e a Napoli. Sempre ad accesso libero
Per chi me lo chiedeva, quest’anno tornerò di meno a Socotra. Abbiamo tanto lavoro e tanti progetti per la testa e non riesco più a stare così tanto fuori dal mondo (per quanto sia bellissimo). Porterò solo due tour con Welcome To Socotra dal 14 ottobre al 31 ottobre, se vi va di venire, io sono lì, ma per piacere scrivete a loro per qualsiasi tipo di informazione, io non so niente.
Questa volta i consigli stravolti arrivano con una prossima mail che non tarderà e che conterrà una piccola sorpresa.
A presto!
Eleonora