Forse il caffè più remoto del Caucaso
Una storia dal Khevsureti e qualche festival a inizio autunno
Ciao!
Questa è Pain de Route, cioè pan di via, la newsletter più imprevedibile dell’Est. Di Eleonora Sacco, che poi sarei io.
È lo spazio dove provo ad arrotolare i fili ingarbugliati di una vita senza copione, annuncio in anteprima gli eventi e i viaggi di gruppo e raccolgo qualche consiglio di ascolto e lettura. Esce quando deve uscire. Oggi scrivo da Osh, in Kirghizistan.
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Oggi volevo solo raccontarvi una storia di mezza estate - nell’ultima newsletter di giugno non ce l’avevo, così recupero ora.
Coi tour per quest’anno siamo al completo, tranne per gli ultimi posti nel tour in Transnistria del 22-27 settembre. Ci si sente a dicembre coi programmi per il 2025. Segnalo sempre anche qui, ma ora c’è anche la newsletter-notifica di Kukushka, che vi avvisa quando escono i programmi e quando aprono le iscrizioni.
Buona lettura,
Eleonora
«Pare ci sia un caffè chiamato Cafe Shete»
Il Khevsureti è tornato a me come un acquazzone estivo sul far della sera - deciso impulsivamente, poco prima di partire. Una boccata d’ossigeno tra un tour e un altro, perché anche Arevik potesse capire il nocciolo del Caucaso, le sue foreste e le sue spigolosità - umane e orografiche.
Me lo ricordavo molto bello, a tratti spettacolare, dalle atmosfere cupe e misteriose. Una sorta di bellezza minore e delicata, difficile da sfiorare e da apprezzare, così come è lunga e precaria la strada per raggiungerlo. Ed era proprio così - forse persino più affascinante di come mi era rimasto impresso.
Dal passo di Datvisjvari, il passo della ‘croce dell’orso’, dove l’aria a 2689m è già più rarefatta, si sprofonda in una valle dove tutto è pietra e acqua e ancora pietra che l’acqua consuma e trascina via. Lo sterrato per Shatili è più impervio di quello che sembra - da queste parti un fondovalle è più in balia degli eventi atmosferici che non un valico d’alta quota.
In lontananza, gli sciami di pecore ronzano su pendii ripidi e erbosi, pettinati dal loro brucare omogeneo, che non dimentica neanche un filo d’erba. I loro pastori seminomadi si scaldano in pesanti giacconi anche a metà agosto, tra stufe alimentate a sterco e capanne che brillano sotto teli in plastica blu. Salgono sul passo per parlare al cellulare, dove c’è ricettività, inanellando le vocali chiuse e armonizzate della lingua azera.
Una torre solitaria, i fiori bianchi che disegnano i cigli alle strade, le nuvole che proiettano sagome contorte sui pascoli verdi, poi la gola che si stringe e il fiume che si ingrossa di fango, legni, sassi, di ogni cosa che la montagna non vuole più e che va portata al mare. Finalmente la città è lontana, lontanissima, e il cellulare non prende quasi più. Finalmente siamo in Khevsureti.
A Shatili ci fermiamo per dare un po’ di tregua alle ruote della macchina e per mangiare qualcosa in un caffè che, varcata la porta, è letteralmente la cucina di una signora khevsur con due nipoti giovanissime e dall’inglese impeccabile, che quasi stona con il tocco grezzo, dimesso e teneramente improvvisato di queste valli. Non c’è posto per tutti ai due tavoli, così ci stringiamo e invitiamo al nostro due ragazzi arrivati poco dopo di noi, bielorussi trasferiti da più di due anni (sic) a Tbilisi, e altri due più o meno inglesi che li stavano riportando indietro in autostop. In meno di qualche minuto finiamo a parlare di politica caucasica, elezioni, rivoluzione bielorussa, coscienza politica in rinascita, dell’attacco ucraino nella regione di Kursk e del battaglione volontario georgiano laggiù, del futuro della Russia, di dissidenza e repressione, di valori e sogni europei, diversi significati di Europa a seconda di chi la guarda, e poi pure di Turkmenistan e storie assurde che probabilmente avrete già letto da qualche parte su questa newsletter. Tutto questo perché ovviamente i due bielorussi sono scappati da una Minsk soffocante post rivoluzione fallita («ci toglievamo le scarpe per salire sopra le panchine e protestare con i nostri striscioni», ha detto a un certo punto Masha) e madre e figlio più o meno inglesi vengono dall’ambito cooperazione e diplomazia. La donna, dal carattere gentile e ferreo allo stesso tempo, è la responsabile UNHCR per la Georgia. Si inerpica in assurde discussioni con la ragazza del caffè per provare a farsi insegnare le difficilissime consonanti eiettive delle lingue kartveliche. Chiacchierando col figlio cita lo swahili e l’ungherese, parla fluentemente in russo, porta un bizzarro nome cinese. La gente che si incontra da queste parti, dove gli stranieri sono pochi e la strada che hanno dovuto fare è molto lunga, è in fondo un po’ così. Oltre la tettoia piove a dirotto, con la sensazione che la montagna possa colare giù insieme all’acqua da un momento all’altro. Finiamo i nostri infallibili badrijani nigviziani e appena spiove proseguiamo lungo la gola, che non appena sfiora il confine ceceno ad Anatori si ripiega subito su se stessa verso l’interno, in una strada via via sempre più stretta che lambisce il fiume, dove anche il parco smette di segnalare il rischio frane, perché essenzialmente è tutto un unico rischio frana, da Shatili in poi.
Da quel fondovalle inadatto alla vita umana non si capisce bene cosa aspettarsi - e si annida proprio lì la meraviglia del Khevsureti. Le pareti di roccia lasciano spazio a inaspettate foreste di pini, rocche scoscese sormontate da villaggi fortificati, resti di torri mozzate forse dalla neve o forse da qualche assedio nemico, cimiteri e piccoli santuari pagani abbarbicati su terreni dalla pendenza impossibile.
Poco prima che finisca la strada dormiamo noi, in cima a una serpentina strettissima e apparentemente impossibile, su cui le marce ridotte realizzano il miracolo dell’ingegneria meccanica portandoci in cima.
Il mattino dopo, la pioggia ci dà tregua e l’alba porta un cielo limpido, pulito dalle forti piogge. Ci decidiamo a provare un passo seguendo un sentiero secondario che si ricongiunge al leggendario Shatili - Omalo: avremmo provato ad andare fin dove possibile in macchina, per poi proseguire a piedi. Le tracce GPS in Caucaso non si prestano a troppe interpretazioni. Salita: +792m. Discesa: -0m. Distanza: 4.3km.
Esplorando varie mappe e altimetrie, Arevik si imbatte in qualcosa di totalmente inaspettato proprio nel nostro ipotetico punto di arrivo. Google Maps geolocalizza quello che pare essere un bar improvvisato - una staccionata e quattro pareti di compensato a 2484m -, dal nome iconico, semplicemente perfetto: Cafe Shete. La descrizione dell’attività registrata su GoogleMaps recitava solo due parole: “For travelers!”.
Una ragazza, nelle recensioni, una settimana prima scrive che è l’unico bar nel raggio di chilometri lungo il difficile percorso per il Tusheti. Ma poteva esistere davvero?
Qualunque cosa questo Cafe Shete sia, decidiamo di andare a scoprirlo.
Su tutte le carte a nostra disposizione, cartacee e online, la strada finisce ad Ardoti, l’ultimo insediamento realmente semiabitato della valle. Poco oltre, ad Andaki, ci vivono in due, ci dicono, ma solo per qualche mese all’anno. La realtà dei fatti, come spesso in Caucaso, contraddice la teoria: la strada continua.
Arevik a volte ha le pupille inspiegabilmente dilatate, che rendono il suo sguardo fermo e trasparente. Mi guarda per cercare una consonanza di adrenalina mentre decidiamo di spingerci oltre: c’è un guado, ma sembra attraversabile. Lascia il freno, e la jeep va. E poi? La strada si stringe e si abbassa sempre più vicino al fiume, che salta, fangoso e agitato, sulle pietre del fondo. Da là sotto, con le pareti così ripide e scoscese, sembra impensabile che da qualche parte riesca a staccarsi un sentiero che porti in cima. Memorizziamo ogni minimo slargo come una possibilità di fare inversione e tornare indietro, ma ci fermiamo solo quando il tracciato viene inghiottito dal fiume. L’acqua così fangosa non ci fa capire la profondità del guado e la fattibilità della cosa - dopo le piogge fortissime del giorno prima, il fiume è davvero gonfio e irrequieto. E se il fiume ci trascinasse via? E se una ruota rimanesse incastrata nella sabbia bagnata? E se prendessimo un sasso che ci spacca qualcosa? Proviamo a lanciare una pietra, ma l’acqua restituisce solo un tonfo sordo e uno schizzo notevole, che non promette nulla di buono.
Alla fine, riusciamo a fare inversione e a parcheggiare in un piccolo slargo qualche centinaio di metri più indietro. Oltre, in auto, non si va. Ma, anche a piedi, guadare quel fiume non sarà uno scherzo. Seguiamo un sentierino che si stacca dalla strada, in cerca di rocce gemelle tra cui saltare, quando all’improvviso spunta un ponte fatto di due tronchi portanti e tanti legnetti, tanto minimale quanto efficace, che ci evita un guado pericoloso a piedi scalzi nell’acqua gelida. Siamo di là e il Cafe Shete si trova da qualche parte settecento metri più in su di noi, in una valle ripida e selvaggia, divorata da pànaci alte metri, che schiviamo sperando non fossero le pànaci di Mantegazza cantate dai Genesis, e che a tratti ci fanno sentire di essere formiche disperse in una foresta di fili d’erba.
Come sempre, anche in quella che sembrava una valle incontaminata, ci imbattiamo in qualche traccia di vita. Le fondamenta di vecchie baite in pietra ora diroccate, covoni di fieno bagnati dalla pioggia e, poco più sopra, due case dalle pareti coibentate con lo sterco rivelano presenza umana: un gabbiotto per il bagno, un cestello con due pattini in legno autocostruiti attaccati sotto il fondo, a mo’ di slitta, un paio di stivali, e un carico di teste d’aglio a seccare sul pavimento quando proviamo a sbirciare dietro la porta.
«Gamarjoba? C’è nessuno?»
Il sentiero è un solco di fango molle che viene inghiottito ai lati da un bosco di ortiche, pànaci e fiori splendidi, che cambiano man mano che si sale di altitudine. Intorno alle due baite, osservandole dall’alto, scopriamo campi coltivati a cipolle, aglio e patate, seguendo il versante più dolce della montagna, e ancora altri covoni qui e lì, tra le ortiche, e altri resti di baite. In passato, forse, quello era stato un piccolo alpeggio abitato qualche mese l’anno. Una piccola fontanella costruita come una khati pagana, all’ombra di un salice, è l’ultima traccia antropica che troviamo prima di ricominciare a salire lungo il crinale.
La valle si spalanca progressivamente sotto di noi come una vena dalle diverse tonalità di verde, via via più scuro quando si allontana dallo sguardo, più brillante quando le si avvicina. Le nuvole in cielo proiettano ombre magnifiche sulle superfici corrugate e vellutate delle montagne. In cima alla serpentina, quando finalmente scavalliamo su un pratone d’alta quota, una visione inaspettata ci toglie il fiato. Per un paio di minuti soltanto, le nuvole spalancano come un sipario la colata perfetta di ghiaccio della parete sud del Tebulosmta - un nome che sembra una crasi tra un tavolo e una nebulosa, e in effetti in qualche modo lo è. È la vetta più alta del Caucaso orientale, condivisa a metà con la Cecenia, che lo chiama Tuloy-lam: un massiccio poderoso, che anche da vicino sembra tagliato con un coltello, di 4493m. Quella immensa e liscissima lastra di ghiaccio mi ipnotizza come una visione celestiale. Che fosse reale? O solo suggestione?
Le nuvole se la riportano via poco dopo, lasciandoci il beneficio del dubbio.
Il pratone prosegue come una platea affacciata sulle creste più aguzze del Caucaso orientale, che traccia la linea di confine tra Georgia e Federazione russa. Negli anni ‘90 e primi anni 2000, quei profili dividevano pace da guerra e poi guerra da pace, ostacolavano la fuga di civili in cerca di salvezza dalle bombe, permettevano a terroristi sanguinari di scappare ai mandati di cattura, nascondendosi tra le cavità delle montagne. Oggi, il confine dell’Argun, quello attraverso cui sono confluiti migliaia di profughi ceceni solo una ventina di anni fa, è ancora chiuso. La necropoli di Anatori dista appena seicento metri da una strada che si interrompe e dalle postazioni russe, dall’altro lato della montagna. La guerra è tornata ma questa volta nelle pianure, qualche centinaio di chilometri più a nord-ovest.
Anche in cima al nostro passo c’è una postazione militare, da cui sventola una bandiera georgiana. Un militare ci vede e si avvicina.
«Atsunta?», ci chiede. In tal caso, se andassimo fino al passo, dovrebbe controllarci i passaporti.
«Ara, ara, Cafe Shete. Ardotidan, Ardotshi», rispondiamo. Da Ardoti ad Ardoti.
Oltre la postazione, spunta una costruzione bassa in compensato, addossata al pendio, circondata da un recinto fatto di rami spogliati della loro corteccia. Intorno, mucche e cavalli pascolano noncuranti di tutto.
Un ponticello su un torrente ci porta nel reame di questo luogo tanto remoto quanto assurdo. Sembra quasi che non ci sia nessuno, ma le mucche qualcuno le dovrà pur guardare.
«Gamarjoba?», proviamo di nuovo.
Dalla casupola esce una donna tutta intabarrata in una grossa fascia di lana per scaldare le orecchie, uno scaldacollo e un gilet imbottito.
«Cafe Shete?». Rimane ferma sulla soglia. Non sorride, ma ci fa segno di entrare.
A mille metri di dislivello dal temibile passo che separa il Khevsureti dal Tusheti, a 3500m di quota, a varie ore a piedi dalle ultime parvenze di insediamenti umani, a un paio di chilometri in linea d’aria dalla Cecenia e in una delle aree più incontaminate del Caucaso orientale, c’è quello che è a tutti gli effetti un piccolo bar, per giunta con un’amaca intrecciata a mano che dondola al vento.
A Socotra, per motivare i turisti sfiancati dal caldo e dalla ripidità dei sentieri, spesso scherzavo con espressione persuasiva dicendo che in cima c’era un chiringuito specializzato in cappuccini, se era mattina, o in mojito, se era sera. Nel delirium tremens dato dal sole socotri, in tanti ci credevano per qualche secondo, ed era sempre molto divertente vederli realizzare di esserci cascati in pieno.
Questa, invece, era la prima volta dove una battuta del genere sarebbe stata insospettabilmente vera.
«Q’ava sheidzleba? Ori turkuli q’ava», chiediamo.
La donna ha l’aria di non parlare altre lingue oltre al georgiano, ma mette su due caffè turchi. Il caffè è buio e la stufa a legna tiene in caldo un bollitore d’acqua per qualche improbabile avventore. Sulle pareti di compensato penzolano le calze di lana a motivi tradizionali khevsur e un improbabile router del Wi-Fi. Il cartello con freccia all’esterno promette anche una sottospecie di menù di traditional cuisine, ma noi dobbiamo tornare giù prima che arrivi la pioggia e non abbiamo tempo di verificare.
Guardiamo le valli verdi del Khevsureti sotto di noi attraverso il vetro di un bar, con una tazza di caffè bollente tra le mani che decanta frasi strasentite sull’amore in inglese. La mia sfoggia una bimba circondata di cuori, quella di Arevik un’improbabile tour Eiffel. Contro ogni aspettativa, il Cafe Shete ci fa uno dei migliori caffè turchi bevuti in Georgia. Nel restituire le tazze coi fondi, provo a esercitare il mio georgiano basilare e dichiaro, come una bandiera bianca, che veniamo dall’Italia e che parliamo georgiano solo tsot’a tsot’a.
«Ara tsot’a shen itsi kartuli», mi ribatte secca la donna, con un sorriso. Non è vero che parli poco. Si chiama Leia.
Il militare pogranichnik che ci aveva avvistati poco prima entra nel caffè per scaldarsi un po’ e per fare due chiacchiere. Ha due occhi azzurro ghiaccio, penetranti, che brillano sul volto scottato dal sole d’alta quota.
Arevik più tardi avrebbe detto, scendendo giù, che in montagna alla gente viene voglia di parlare solo quando te ne devi andare. Ovviamente, è stato così anche per noi e trovo sempre che sia il bisogno di scambi umani che supera le ultime barriere di timidezza quando ci si rende conto che ogni lasciata è persa.
Chiedendo il totale, Leia mi fa uno sconto perché parlo georgiano. Quella minuscola gentilezza mi colpisce e riempie d’orgoglio. Con il pogranichnik invece si può parlare un russo infarcito di parole georgiane senza problemi. È di Ardoti anche lui, parente della famiglia presso cui abbiamo alloggiato anche noi. Fa la guardia di frontiera lassù solo d’estate, mentre d’inverno scendono in valle, perché lì tutto scompare sotto la neve. Ogni parola in alta montagna ha un peso specifico diverso, così come il tempo, che ha una durata differente. Noi dobbiamo scendere prima che la pioggia trasformi il sentiero in un fiume in piena, lui deve tornare in postazione, eppure qualcosa tiene noi, lui e Leia legati da un filo stretto. Il tempo in qualche modo si deforma in una sacca dove tutto rallenta e si rimescola, le domande vengono calibrate con più cura. Chiedo chi passa di lì e perché, se sono tanti, e lui mi risponde che quasi ogni giorno d’estate sì, passa qualcuno, e che hanno trovato anche nazionalità bizzarre per quelle coordinate, dal Cile al Messico. A volte un paio di persone, a volte qualche decina. Mi chiedo se una decina di caffè al giorno, per tre mesi all’anno, bastino a pagare l’abbonamento del Wi-Fi del Cafe Shete.
Prima di poter varcare la soglia, Leia mi chiede, al solito, di vuotare il sacco.
«Vivi a Tbilisi, vero? Com’è che sai il georgiano?». La risposta è troppo lunga per la fretta che il meteo caucasico ci impone, così do una risposta che spiega tutto nella sua approssimatività.
«Me var lingvist», che poi chissà come si dice linguista in georgiano.
Il pogranichnik e la donna sospirano un aaaah che probabilmente li solleva dall’ansia che potessi essere una spia inviata a raccogliere informazioni sulla frontiera russo-georgiana.
Con la carica del caffè in corpo, salutiamo e auguriamo ogni bene lasciandoci la staccionata alle spalle. Sheni mta - lamazi, gli dico. La vostra montagna - bella.
Inghiottiamo il sentiero del ritorno a grandi falcate, mentre il meteo sembra reggere ancora per un po’. Il Tebulos inghiottito dai cumulonembi scompare lentamente alle nostre spalle e noi, guardando giù, vediamo una figura umana aggirarsi a fare fieno non lontano dalle baite.
Da quelle parti, nelle valli più dimenticate del Khevsureti, bisogna salutarsi per forza. Solo il fatto di essere entrambi lì, in quel preciso luogo e preciso momento, rende l’incontro straordinario a prescindere. Dopo un gamarjoba, rogor xar? sbuca tra le sfere perfette di un campo di aglio in fiore Nikoloz, un khevsur di Ardoti che d’estate viene a mettere a frutto quei terreni della sua famiglia, fatto spiegabile solo dall’estrema scarsità di terre coltivabili in valli così ripide e inospitali. Dovunque ci sia abbastanza sole e una ripidità leggermente inferiore dell’impossibile, i khevsur coltivavano, a ogni costo.
Al sentire che siamo italiani, dichiara subito: «Aleksandri Makedoneli!».
Nikoloz ha fatto il maestro di lettere per ventisette anni nelle scuole di Ardoti, Mutso, Shatili. È un p’ilologi, dice con fortissimo accento georgiano, uno specialista di poesia e simgherebi, di canzoni. Ce ne decanta una, gli stivali nella terra, le sue montagne intorno, il volto tagliato da un sorriso immenso e gli occhi rivolti verso il cielo.
«Sokrati, Aristoteli, ya ikh vse znayu!», li conosco tutti quelli là, ci dice.
E ora, dopo aver insegnato, che fa?
«Il pogranichnik, come tutti». In Khevsureti ci sono probabilmente più guardie di frontiera che abitanti e tutte sono occupate a fare qualcos’altro che non è sorvegliare l’insorvegliabile frontiera.
Quando passiamo l’ultimo guado con la macchina tiriamo un sospiro di sollievo. Il temporale è in ritardo, l’auto è integra, le nostre gambe pure, il Cafe Shete è stato il nostro miraggio. Quei pogranichniki e la donna del Cafe Shete sembrano presenze eteree, uscite da un romanzo russo ottocentesco. Il ghiacciaio del Tebulos ci ha abbagliati per pochissimi minuti, ma sufficienti perché rimanesse inciso nella memoria a lungo.
Del Khevsureti questo era solo l’inizio. Il Caucaso si riconferma sempre una buona idea.
Prossimi eventi
28 settembre sarò a Segni di Pace, un festival organizzato da Manitese Finale Emilia a cui parteciperò con Giorgia Spadoni e Marco Siragusa di Meridiano13, modera Gianluca Diegoli. Info più sotto data!
Il 3 ottobre sarò al Festival DiParola a L’Aquila. Una delle menti dietro questa iniziativa grandiosa è Valentina Di Michele, autrice con Alice Orrù e Andrea Fiacchi di Scrivi e lascia vivere, il testo di riferimento per la scrittura inclusiva in italiano. Studierò sui loro manuali per prepararmi all’intervento che mi hanno chiesto di tenere: il linguaggio etnografico per comunicare i viaggi in maniera rispettosa e consapevole.
Il 13 ottobre sarò a Lecco al Festival Immagimondo, a cui ho già partecipato varie altre volte, fin da tempi non sospetti. Credo proprio sia stato il primo festival da cui ho ricevuto un invito: nel 2016 parlai del nostro primo, folle viaggio in Caucaso. Questa volta parleremo di Socotra con la giornalista esperta di Yemen Laura Silvia Battaglia.
Sul resto ci aggiorniamo su Telegram
Consigli stravolti
📖Ho iniziato a spizzicare Il Cristo iracheno, di Hassan Blasim, ed. Utopia, molto bello
📰 Così scompare il patrimonio armeno dal Nagorno Karabakh, di Luna de Bartolo su Repubblica. Luna De Bartolo è una giornalista con sede a Tbilisi, Georgia. Oltre a coprire il periodo delicatissimo che sta attraversando il paese che si avvicina alle elezioni (ottobre), segue l’intera area del Caucaso e dell’Asia Centrale. Come al solito, praticamente nessuno parla della rimozione capillare di ogni traccia millenaria di presenza armena che l’Azerbaigian sta facendo (dopo averlo fatto nella sua exclave del Nakhichevan) sui territori del Nagorno Karabakh, recuperati dopo un assedio e la pulizia etnica della sua popolazione. Per giunta, l’Azerbaigian, paese produttore di gas e petrolio collegato all’Italia con la TAP, ospiterà la Cop29, con cui si ripulirà l’immagine e coprirà le attività di distruzione e ricostruzione in Karabakh. Di Azerbaigian e Cop29 aveva scritto anche Lucia Bellinello su LifeGate.
📰 Onoratissima di aver risposto a qualche domanda di Viola Stefanello sul turismo responsabile, articolo uscito su Il Post
📰 L’anno in cui si è rotto il turismo, RivistaStudio
📰 LombarDie: morte di una regione, su Il Tascabile. Non è mai troppo tardi per odiare un po’ la Lombardia
📰 Consigli per viaggiare in modo sostenibile, Internazionale
🎧 Ancora mi rompo la testa sui concerti dei CCCP. Bel podcast di Radio Vanloon con un po’ di storia sulla prima data bolognese in piazza Maggiore.
🎧 Sentito Sangue Loro di Pablo Trincia, non sentivo suoi podcast da un po’, questo è molto bello - perlomeno nelle parti che raccontano le radici del terrorismo OLP negli anni ‘80 e le storie dei ragazzini palestinesi coinvolti. Un pezzo di storia italiana che forse la mia generazione ignora.
🎧 Sempre nel mood, mi sono documentata un po’ sulla storia dell’aereo di Ustica con questo podcast di ValigiaBlu, sempre fatto bene.
🎧Non conoscevo Fare un falò di Nicola Lagioia, è carino. Questo episodio sul viaggio in URSS di Italo Calvino è interessante, racconta un pezzetto di storia che non conoscevo. Non sono d’accordissimo con come racconta le cose, ma la voce di Lagioia è rilassantissima e lo ascolterei per ore.
Per oggi è tutto, un abbraccio da Osh, Kirghizistan, e a presto!
Eleonora
Ho intercettato solo ora i tuoi scritti, ma perché?! Che storia stupenda! Alla prossima!
Sempre affascinante ❤️