⛰️«Mi sa che c'è un orso». Di Caucaso, di amori che esplodono e di capodanno in Albania
Una storia a cavallo dal Tusheti, e un capodanno in Albania all'orizzonte (26 dic - 2 gen)
Ciao!
Com’è strano tornare a scrivervi dopo mesi che sembrano anni, in cui è successo di tutto. In questo settembre, a momenti mi sembrava di galleggiare in balia delle onde su un isolotto di ghiaccio che, giorno dopo giorno, va sempre più in frantumi. Un blocco oggi, uno domani, una crepa che si allarga, e la paura di colare giù a picco.
Oggi galleggiamo ancora: è già qualcosa, e cerco di esserne contenta, per quel che vale. Martedì atterro a Socotra, e la sensazione è di lasciare la Terra per un altro pianeta, ma questa volta mi porto le olive taggiasche, i pomodori secchi, la frutta essiccata e l’olio d’oliva. E magari della pasta di mandorle. Prometto che cercherò di non prendere pulci né rompermi dita - sì, il mignolo alla fine era rotto! Per tutta la bella stagione, l’isola ha continuato a fare capolino nella mia vita, ogni tanto, come un punto di luce che a volte conforta, a volte innervosisce, a volte strappa una risata nei momenti più difficili, o manda tutto in vacca - e in fondo va bene, perché doveva andare così.
«Nori, how are you?»
«Hi Adnan, I’m in Armenia and yesterday war broke out. Azerbaijan attacked Armenia, but we are in a safe area»
«That’s bad news!!!»
Ah, i socotrani.
Nel mare di bad news (grazie Adnan) in cui galleggiamo, prometto che questa mail sarà invece un isolotto di good news. Alcune anticipazioni:
Capodanno in Albania dal 26 al 2 gennaio. 8 giorni, 1090€. Iscrizioni aperte per voi in anteprima da qui, info e programma sul sito.
Una nuova avventura autunnale in Val Grande, con notte in bivacco, da Piero, l’eremita del parco. 12 e 13 novembre, 130€. Tutte le info qui. Iscrizioni già aperte da qui.
Un sacco di altre idee e voglia di incontrarsi di persona. Senz’altro al mio ritorno organizzerò qualche chiacchierata, o magari una cena.
Più sotto tutti i dettagli.
«Ema, mi sa che c’è un orso»
La torre di Leibaskari, in Khevsureti, agosto 2022.
Fuori ha ricominciato a piovere, ormai fa freddo in casa, e i vestiti stesi non si asciugheranno mai. Esco a fare una passeggiata sotto l’acqua, nel parco del nuovo quartiere dove mi sono trasferita, per ricucire i pezzi dolcissimi di quest’estate caucasica, talmente dolci che ora mi suscitano quasi dei sensi di colpa. Era dal 2015 che non vivevo appieno le montagne del grande Caucaso, e dopo tutti questi anni finalmente ho capito da dove si sprigiona quell’energia primordiale, folle e pagana, che abita nelle persone. Scende dai ghiacciai, dai torrenti d’alta quota, e fluisce nelle loro vene. Oggi, che piove tutta l’acqua del mondo, è ingiusto ricordare il fiume d’oro dell’alta montagna d’estate. Non me lo merito, ma devo.
Ripenso alla panettiera di Zemo Alvani, dove i tushi svernano in pianura, che insieme al puri appena sfornato ci regala dei pomodori dell’orto col sale, tagliati in grossi spicchi, appoggiati su un piattino orlato di fiori azzurri e rossi. E delle sedie di plastica per farci mangiare con calma, davanti al suo forno, in cui troneggia un immenso e spaventoso macchinario metallico sovietico.
O all’emozione di vedere finalmente la Cecenia a poche centinaia di metri dalle tombe di Anatori, alla fine del canyon di Argun. Il corrotto governo ceceno la sua parte l’ha già asfaltata, pronto a reclamare un pezzo di Georgia perché un tempo tutto questo era nostro. E nella valle lato georgiano abbondano i militari. Oni patruliruyut, mi dicevano tutti. Pattugliano. Militari, coltivazioni segrete di marijuana e famiglie khevsuri che si radunano per sacrificare una mucca nei pressi di un cimitero e di un torrente, dove sciacqueranno il sangue. Gli uomini devono guardare l’olocausto, le donne non possono - rimangono in disparte, vicino alle macchine, e preparano il banchetto con cui festeggeranno. Un loro parente è sopravvissuto a un incidente stradale. Lui rimane in questo mondo, la mucca va.
O la primissima vista del Tusheti dal passo di Sakorno, che sfiora i tremila. Solo una desolata vallata erbosa, color miele, fatta di infinite costolature che sfumano a Est, verso il Dagestan. E più scivolano in là, più sanno di polvere, e carovane di mercanti, e fortezze inespugnate. Alla vista del bivacco di Alaznistavi, sul fondovalle disegnato dai rigagnoli argentati, i cavalli scalpitano: sentono che sono arrivati, vogliono correre via tutta la fatica e la paura, in una cavalcata liberatoria. Beviamo l’acqua pura del Tushetis alazani, come un’iniziazione, e poi ci laviamo per intero. È un’abluzione rituale agli ultimissimi raggi di sole, nella corrente gelida, che brucia ogni centimetro della pelle nuda.
Ma poi penso che devo fare ordine e pulizia sui sei giorni a cavallo di quest’estate, dal Pankisi al Tusheti, e ci proverò raccontando una storia dalla tappa in assoluto più bella. Con gli amici a fine agosto ho fatto cinque giorni di grandi silenzi e dialoghi interiori, ascolto, negoziazione, cura, fiducia reciproca con il cavallo, concentrazione pura in paesaggi sublimi, il tutto dormendo in tenda e portandoci tutto quello che ci serviva appresso. Chili e chili di cibo, fornelletti, sacchi a pelo.
L’arrivo a Masara è stato sublime come un miraggio. I cavalli erano stremati e lo eravamo pure noi. Costeggiando le pietraie della montagna di ferro né io né il cavallo potevamo sbagliare un passo. Se sbagliavo io, finivo di sotto. Se sbagliava lui dietro di me, finiva di sotto trascinandomi con lui. Dove il sentiero era una frana polverosa, sussurravo a Chala con voce soffiata, gli indicavo il sentiero più sicuro, sperando che gli zoccoli non lo tradissero. Eeeeh, Chala. Brrrr, Chala. La mia sopravvivenza, nelle zampe di un animale forte, fiero, esperto, testardo, coraggioso. Eeeeh, Chala.
Masara era in quota e il gelo si faceva sentire già con le prime ombre. C’era da montare le tende quanto prima, andare a cercare il torrente, riempire le borracce prima che il gregge di pecore bevesse dallo stesso, e iniziare a cucinare.
Cala il buio, e i pastori dell’alpeggio si uniscono al nostro fuoco. Non passa molta gente da quelle parti, e quando c’è un’anima viva si va a vedere chi è, e cos’ha da dire. Sono kisti del Pankisi, ma non è detto che lassù siano tutti di lì: si incontrano tushi del Tusheti, georgiani ex tushi di Zemo Alvani, azeri del Kakheti che fanno il lavoro sfiancante del pastore d’alta quota, che i georgiani non vogliono più fare. Ogni incontro a quelle altitudini è un’epifania. Osservo il pastore più anziano oltre le fiamme, il volto che emerge dall’ombra in poche pennellate rosse. Ha la pelle tesa e scottata dal sole e dal gelo, gli occhi azzurrissimi, vuoti e stanchi, le rughe profonde a contornargli il viso. Avrà forse cinquant’anni, ma ne dimostra almeno venti in più. Non vuole cantare in ceceno, non sa cantare, dice, ma è una bugia, non c’è pastore del Caucaso che non sappia almeno una canzone; così cantiamo noi, come si fa in quelle notti immense, per riempire l’universo di montagne, buio e stelle con un grido vitale, tanto vibrante quanto effimero. Qualcosa di vivo, un segno, uno sfogo.
E dopo il canto, è il momento delle storie. Mukhmad si incupisce un po’ sotto i suoi occhi neri quasi da bambino, di storie allegre non ne ha. È stata la giornata più dura oggi, mi dice, «è così dura per i cavalli, così pericoloso». Mi confessa quanti cavalli sono caduti giù dal dirupo della montagna di ferro. Le guide e i pastori li contano come caduti al fronte, non ne dimenticano nessuno. L’ultimo era due settimane fa. «E cosa potevo fare, se non lasciarlo lì? Abbiamo dovuto proseguire». Quella montagna è maledetta. Ogni tanto, qualcuno deve pagare. Racconta piano, in russo perché è stanco e in fondo gli viene più semplice, ma agli altri non traduco tutto: i dettagli erano truci, e i cavalli erano molti. Avevamo ancora tre lunghe giornate di cavalcata davanti, non era il caso di farsi spaventare così in mezzo al nulla. Poi è il momento dell’orso. Lo evochiamo, come per esorcizzarlo. Cha, in ceceno, datvi in georgiano, medved’ in russo. Due settimane fa, ai piedi di Patara lamazuri, ha visto una mamma con i cuccioli a pochi metri dal sentiero. Appena ha incrociato il suo sguardo, è scappata via. Noi ci siamo limitati a trovarne gli escrementi sul sentiero, qui e lì. Ne ha visti più di quelli che ci ha fatto notare: non ce l’ha detto per non farci spaventare ma sì, ce n’erano anche oggi. Quando i semechki finiscono e il fuoco si affievolisce - la legna a quelle altitudini è cosa rara, e ovviamente preziosa - è ora di andare a dormire, e portare il calore del fuoco dentro i sacchi a pelo. Il pastore mette il gregge al sicuro dai lupi, libera i pastori del Caucaso e noi ci infiliamo nelle tende al limitare del pianoro. Una terrazza naturale affacciata su drappi neri, una Via Lattea commovente, e miliardi di altre stelle, che tremano come piccoli fuochi blu.
A circa 2700m la temperatura è di poco superiore allo zero. Cinque gradi, forse sette se va bene. Con le tende estive che abbiamo, avvolgo come un bozzolo il mio sacco a pelo nella coperta termica salvavita, che riflette il calore, sperando di riuscire a dormire e non passare un’altra notte in dormiveglia a battere i denti dal freddo. Cado in un sonno esausto e profondo, immobile nelle mie ossa rotte, come spezzata in due.
Dopo qualche ora, mi sveglio di soprassalto, trattenendo il respiro. Ascolto. Passi pesanti di fianco alla tenda. Due, quattro zampe. Sei? Sono in tre su due zampe? O forse otto? Spalanco gli occhi nel buio pesto, ma non posso muovermi. Anche un respiro troppo profondo sposterebbe la coperta metallica, che produce un rumore che attirerebbe l’attenzione. Sento il terreno che sprofonda sotto il peso delle zampe, il leggero scricchiolio dell’erba schiacciata. Qualunque cosa sia, è grosso.
Tesa come una corda di violino, tendo l’orecchio a ogni spostamento d’aria. Sono passi lenti e pesanti, di zampe grosse, ben più grosse di una mano aperta. Gira intorno alla tenda a passi cadenzati. A ogni appoggio, la terra umida manda una vibrazione. Provo a trovare una spiegazione razionale. Impreco e impreco ancora. Abbiamo noi tutta la spazzatura, tra cui la latta sporca di una disgustosa carne in scatola azera ricoperta di grasso. Idea brillante. Geniale.
L’adrenalina è già in circolo e niente, so già che non mi riaddormenterò più: sono carica come se avessi bevuto dieci lattine di Redbull.
All’improvviso, i passi si fermano: sento un ringhio lungo e profondo, mugugnato. In linea d’aria, sarà forse a due metri da me. Non mi vede, ma sa perfettamente che ci sono. Sente il mio odore, sa che sono donna, sa che sono giovane, sa che sono umana. Sente l’odore delle spezie georgiane, del grasso della carne in scatola, della mia paura che si taglia con un coltello. Non è da solo. Sono almeno in due. Anzi, in tre, o forse addirittura quattro. La mia mente li moltiplica mentre sprofonda in un panico immobile.
Una luce. Poi un’altra. Qualcuno sta puntando due torce contro la tenda, ma da lontano. Bisbigliano: saranno Mukhmad e Osman che cercano di mandarli via. Le luci si accendono e spengono, insistono, ma non si avvicinano. Le puntano dalla loro tenda senza uscire. Intorno, tutto è immobile, ma ringhia, e schiaccia il terreno con la sua mole.
Decido di svegliare Ema a fianco a me, che dormiva come un sasso. Calibro la voce perché rimanga un bisbiglio impercettibile, mentre l’animale non si schioda da dov’è, e il resto del branco continua a pattugliare i dintorni della tenda.
«Ema»
Niente. È in un altro pianeta. Riprovo un’altra volta, appena appena più forte.
«Ema»
Apre gli occhi. Prima che possa dire qualsiasi cosa, taglio corto.
«Ema, non ti agitare. Mi sa che c’è un orso. C’è qualcosa di razionale che possiamo fare?»
Ema si guarda intorno senza muoversi, immobile come me in un sacco a pelo a mummia, la cui zip fa un rumore assordante. Ci pensa un bel po’. Tace, immobile, gli occhi sgranati. Dolorosamente, risponde: «No. Stiamo fermi e aspettiamo».
La mia ultima speranza va in frantumi. Un po’ speravo con tutta me stessa ci fosse qualcosa, qualunque cosa, che potessimo fare, ma nulla aveva senso. Eravamo due mosche abbozzolate e intrappolate in una ragnatela, pronte per essere mangiate e incapaci di difendersi. La strategia migliore era calmarsi, trasudare calma, e aspettare che la bestia se ne andasse. I minuti sembrava interminabili. Mi rassegno ad aspettare, con gli occhi sgranati, le braccia cementificate lungo i fianchi, per quelle che mi sembrano ore. Fuori è ancora buio, i passi e i ringhi si intensificano, ma anche le luci.
Ad un certo punto, forse casualmente, il branco si allontana ed esce dal mio campo di percezione acustica. Siamo salvi!
Rimango a fissare il soffitto della tenda per ore. Non oso muovermi, nella paura che un rumore possa attirare di nuovo quelle zampe e qui ringhi lugubri. Quando sta per albeggiare, crollo distrutta in un sonno più vicino al coma che a una bella dormita.
I raggi del sole filtrano nella tenda, e mi risveglio con la sensazione di avere ogni singolo osso del corpo rotto. Guardo Ema e i suoi occhi acuti, vividi come fiamme, con la paura ancora impressa nelle pupille.
«Non diciamo niente agli altri, ok? Ora vado a chiedere a Mukhmad».
Osman è accovacciato intorno al fuoco. Sta scaldando l’acqua per il suo caffè solubile. Addenta un po’ di formaggio mentre stuzzica i tizzoni con un bastoncino. Mi accovaccio di fianco a lui, tramortita dalla nottata infame, infreddolita, abbagliata dalla luce affilata del mattino. Mukhmad si siede con noi, i palmi delle mani contro il fuoco.
«Mukhmad, parliamo in russo per piacere. Che cos’era ieri sera? Perché puntavate le luci? Io ero sveglia. Era un orso, vero? Cha, cha, datvi, è così?»
I due kisti scoppiano a ridere. «Ma no, ma no! Erano quei maledetti cani pastore che non so cosa facevano, forse avevano sentito la spazzatura!»
La mia memoria primordiale non è convinta. A me sembrava davvero un orso. E se anche fossero stati davvero i pastori del Caucaso, sono bestie immense e aggressive, forse anche più che un orso, addestrate a scacciare i lupi e tutti i più pericolosi animali! Ma cosa c’è da ridere? Mi ci vorranno anni a superare il trauma!
Una parte di me continuerà a credere che fosse davvero un orso, e che i due kisti ci avessero mentito per tranquillizzarci. Me ne tornai da Ema più serena, però, le mani al caldo in tasca, e gli sussurrai: «tutto ok, vsë normal’no. Erano quei cani maledetti»
Prossimi eventi
L’Alazani nella valle di Pankisi, agosto 2022.
Il viaggio di capodanno di quest’anno sarà in Albania, dal 26 dicembre al 2 gennaio. Vi avevo promesso Sarajevo, ma la Bosnia d’inverno è letteralmente meno raggiungibile di Marte - non c’era verso, se non boh, andare a piedi, o in autostop, o due giorni di languore su un Flixbus. Rincorreremo invece un po’ di raggi di sole invernale in una delle terre più inafferrabili dei Balcani, genuina e delicatissima. Info e programma qui. Per voi le iscrizioni sono aperte in anteprima da questo link.
Il 12 e 13 novembre, quando tornerò, faremo un’altra avventura in Val Grande con Pietro Beretta, guida ufficiale parco. Andremo a trovare il Piero, l’eremita e unico abitante del parco, mangeremo e dormiremo nel suo bivacco. Quando non parla con nessuno per giorni gli si «impasta la lingua», come dice lui, ma poi diventa un fiume di storie incredibili. Info e iscrizioni (già aperte) qui.
Più la situazione si fa tetra, più sento l’esigenza di sensibilizzare le persone sulle culture dell’Est che rischiano di venire cancellate dalle mappe - perché sterminate, bombardate, invase, arruolate, mobilitate. Ho in mente un po’ di eventi che vorrei organizzare a tema, magari a gennaio. Vi aggiorno sempre qui. Cercasi disperatamente tempo per farlo.
Altre cose passate
Il festival Vicino/Lontano a Venzone, in Friuli, è stata un’occasione bellissima per scoprire una terra che mi ha smosso corde profonde, e in cui senz’altro tornerò. Un posto pazzesco dove mi hanno portato, a pochi chilometri di là dalla frontiera, in Slovenia, è la cappella russa in legno del passo di Vršič.
Mentre io e Angelo raccontavamo di avventure a Est, nel mezzo dell’assemblea ci hanno comunicato che era venuto a mancare Michail Gorbačëv. Su Telegram ho raccolto una lista di letture e documentari sull’ultimo volto dell’Unione Sovietica, tra cui l’intervista di Werner Herzog, molto interessante.
Anche il Festivaletteratura di Mantova è stato molto bello, e l’incontro con Erika Fatland è stato ricco e stimolante, c’era un sacco di gente. Quanto lontano sono arrivati i suoi libri! Lei mi è piaciuta più di quanto mi siano piaciuti i suoi libri. La Frontiera più interessante di Sovietistan, specie (per me) le parti sulla Corea del Nord, la Manciuria, l’Azerbaigian e il Donbass.
A Mantova ho sviluppato una nuova ossessione ascoltando l’incontro del sempre leggendario Gian Piero Piretto che questa volta presentava James M. Bradburne, curatore di un libro pazzesco che (nonostante il costo) non ho potuto non portarmi a casa: La collezione Adler di libri sovietici per bambini. Nei primissimi anni Trenta e dell’era Stalin si osserva l’evoluzione dell’estetica, dei topoi, dei temi centrali del discorso pubblico anche attraverso i libri illustrati per bambini. Davvero un gioiello, tra l’altro stampato in poche copie, per cui se vi interessa vi consiglio di affrettarvi.
Consigli stravolti
Una canzone per questi giorni: Why worry? dei Dire Straits. Necessaria.
Quando è scattata la mobilitazione, continuava a risuonarmi il testo surreale di Человек из Кемерово degli Akvarium. C’è una frase che dice: «La storia dell’umanità non sarebbe andata così storta, se avessero pensato di contattare l’uomo di Kemerovo». Kemerovo è il capoluogo di un enorme conglomerato industriale metalmeccanico in Siberia, il Kuzbass. Bellissima anche la ballata 25 k 10, ancora attuale.
La playlist di musica armena fatta dalla mia amica Shushan, per tornare un po’ lì, mentre lo stillicidio continua (l’Azerbaigian sta continuando a invadere e annettere territorio armeno, metro dopo metro, nel silenzio generale dell’informazione).
È uscita la prima puntata di Immersi nel mondo, il mini podcast di geostoria per le scuole che ho curato quest’anno per Rizzoli Education. L’editing era a carico loro, e vabbè, è venuto come è venuto. Lunedì esce il secondo episodio.
Arrivo precisamente ventotto anni dopo, ma ho visto su coercizione di Gianluca Pardelli Lamerica di Gianni Amelio, sull’Albania negli anni ‘90. Bellissimo, guardatelo.
Ho finalmente pubblicato l’articolo sul nostro itinerario in Albania di quest’estate, fatto (faticosamente) con i mezzi pubblici e un po’ di autostop dove non c’erano. Viaggio meraviglioso, che vi consiglio di cuore. Se vi va di andarci fuori stagione e lontano dalle masse, potreste venire con noi a capodanno.
Ho riaggiornato il post su cosa vedere a Yerevan, in Armenia, che aveva decisamente bisogno di una rinfrescata. Ora è molto più ricco e rende meglio giustizia alla bellezza della capitale armena, che trasuda cultura da ogni pietra.
Mi è appena arrivato Aniko di Anna Nerkagi, edito da Utopia, che sta sfornando titoli bellissimi da autori provenienti da terre remote. Dopo La fiaba nucleare dell’uomo bambino, ambientata nell’Est del Kazakistan, mi accingo a divorare la storia di una ragazza estirpata dalla penisola di Yamal, la penisola degli allevatori di renne nell’estremo nord degli Urali, proiettata verso i ghiacci del Mar Glaciale Artico. Tristemente attuale, visto che è dalle periferie della Russia che Putin sta reclamando carne da macello. Sembra bellissimo, in libreria dal 4 ottobre.
Sempre il 4 ottobre esce Mosaico Ucraina di Olesja Jaremčuk, tradotto per Bottega Errante dall’ucraino dall’amica Claudia Bettiol, pilastro di Meridiano13 che ha vissuto per diversi anni a Kiev, in Ucraina. È un libro che mi riporterà alle ricerche fatte nel 2018 per la mia tesi magistrale, dove le decine di minoranze etniche e linguistiche di un paese più grande della Francia avevano un luogo centrale. Leggerò appassionatamente.
Se lavorate con le parole, ma anche se vi chiedete alla luce dei tempi in cui viviamo come scrivere per farsi capire e per arrivare davvero alle persone, vi ri-consiglio e stra-consiglio Scrivi e lascia vivere degli amici Valentina di Michele, Andrea Fiacchi e Alice Orrù. È un testo che segna un punto di non ritorno nel panorama italiano. Bravura vera al servizio delle persone.
La newsletter di Meridiano13 di oggi è dedicata alla giornata internazionale delle lingue e ha qualche bell’approfondimento caucasico, non perdetevela.
Uno degli ultimi numeri di Ojalá, la newsletter di Alice Orrù, parla di viaggi e di turismo centrando il punto, e dicendo cose fondamentali. Da leggere e, come sempre, grazie Alice.