🍵Un tè sovietico a Dushanbe
Ho scritto un libro, un trekking in Friuli a giugno, un micro-anniversario e una storia dal Tagikistan
Ciao!
Questa è Pain de Route, cioè pan di via, la newsletter più imprevedibile dell’Est. Di Eleonora Sacco, che poi sarei io. Se te l’hanno inoltrata, puoi iscriverti da qui.
È lo spazio dove provo ad arrotolare i fili ingarbugliati di una vita senza copione, annuncio in anteprima gli eventi e i viaggi di gruppo e raccolgo qualche consiglio di ascolto e lettura. Esce quando deve uscire.
Info importanti in breve:
- ho scritto un nuovo libro e lo sto presentando in giro per l’Italia
- ci sono gli ultimi posti disponibili per i tour estivi Kukushka Tours
- tornerà un weekend lungo di trekking in Friuli, il 20-21-22 giugno
Un minuscolo anniversario
A febbraio 2015 Pain de Route ha compiuto dieci anni. Era nato come piccolo archivio online costruito goffamente su Wix per organizzare informazioni pratiche su come viaggiare in tenda e autostop nei Balcani, in Est Europa, in Russia e in Caucaso. Era un mondo completamente diverso da quello in cui viviamo oggi - una parentesi di distensione e di apertura dei confini (perlomeno di alcuni) che, a ripensarci ora, ha del tenero e dell’incredibile.
Pain de Route è il nome del pan di via tolkieniano in francese - un viatico da avere sempre dietro, un qualcosa di semplice e senza pretese che dà energia, rincuora, sostiene e incoraggia. Ne mangi un morso e poi prosegui con le tue gambe, perché puoi farcela. Questo era il senso dietro quello che volevo fare all’epoca, che, nel suo nucleo più profondo, non è mai cambiato.
Non ho festeggiato, non c’è stato tempo di festeggiare, quest’anno ero poco in vena di grandi festeggiamenti, ma due righe volevo scriverle. So che alcun* di voi sono qui da quei tempi là, o da quando Pain de Route si è spostato su Altervista, da quando è stato letto più di un milione di volte, o da quando è diventato una newsletter, o da quando Instagram mi aveva disattivato l’account perché avevo parlato di Cecenia e di elezioni russe, nel 2021, e avevo creato un canale Telegram per ritrovare una voce.
Oggi, qui a Erevan, sono tornata a casa della mia prima amica armena e di sua madre. Abbiamo mangiato un brunch caucasico, che qui sicuramente non si chiama brunch - è solo come si mangia normalmente quando si ha fame in tarda mattinata. Uova, piselli, una mattonata di burro, formaggio salato, dolci e dolcetti, i cetrioli con la buccia tagliati per il lungo, i pomodori che sanno di pomodoro, ovviamente tè. Intorno a quel minuscolo tavolino nella cucina fresca di remont abbiamo riso, scherzato, parlato e chiacchierato come se ci fossimo viste l’altroieri, e non un anno fa. Ecco, mentre me ne venivo via, ho pensato che io oggi ho festeggiato così: coi cetrioli con la buccia, tagliati per il lungo, mangiati da soli perché in Caucaso sono buoni così.
Auguri a voi che siete qui con me da dieci anni, o da quando ci siete.
E auguri Pain de Route, di strada ne hai fatta molta più di quanto avresti mai immaginato.
Gli ultimi giorni della chaikhana Rohat
«Che cosa possiamo fare? Nessuno ci ascolta. I nostri ricordi, la nostra vita è qui dentro e stanno distruggendo tutto».
Mancavo in città dal 2018 e la trovo trasfigurata al limite dell’irriconoscibile. I palazzi multipiano rivestiti in pannelli di plastica si sono moltiplicati per numero e dimensioni, spazzando via interi quartieri o trasformandoli in cantieri polverosi. Il traffico è dominato da auto elettriche cinesi, bianche e silenziose, che sfrecciano sotto i cartelloni pubblicitari con prezzi al metro quadro a molti zeri e rendering tanto futuristici quanto anonimi.
Lungo viale Rudaki, c’è un edificio basso e dall’eleganza sommessa, di uno stile antico, che non ha niente a che spartire con i palazzoni multipiano sormontati da cupole barocche che stanno spuntando in città. Sono davanti alla storica chaikhana Rohat, una da sala da tè che i sovietici costruirono in un sofisticato stile persiano, tra colonnati monumentali, logge e una saletta interna, affacciata su un giardino, interamente intagliata nel legno da maestranze tagiche. Era il 1958, Stalin era morto da cinque anni, il nucleo inscalfibile della nazione aveva iniziato a scongelarsi e a Dushanbe ci si sentiva nella Grande Persia, tra una tazza di tè zuccherato e l’altra. Nei medaglioni dipinti sulle pareti, danzatrici dalle sopracciglia allungate, le chiome corvine e i visi bianchissimi stringono mazzi di tulipani. I lampadari in finto cristallo pendono disallineati sopra ai tavoli vuoti. Sotto soffitti altissimi, qualche cliente abituale gioca a scacchi, le cameriere corrono in mezzo a stanze vuote e si respira un’aria di mesta rassegnazione.
«Ma allora è vero che la distruggeranno?», chiedo alla cassiera. Ha 58 anni, gli occhi definiti da sottili linee nere, lavora alla chaikhana Rohat dal 2010, con una pausa nel mezzo per una gravidanza. Si chiama Saodat. Oltre a lei, in quelle sale si alternano altre 120 persone tra camerieri, cuochi, addetti alle pulizie, cassieri.
«Ormai è deciso. Credo sarà tra due o tre mesi. Alcuni dicono a giugno 2025»
«E che di voi che ne sarà?»
Saodat fa spallucce. Sul suo viso non traspare la minima emozione. Hanno protestato per anni, opponendosi alla barbarie della demolizione uno degli edifici simbolo della Dushanbe storica, ma non è servito. C’è aria di rassegnazione, di rancore che ormai è sedimentato in apatia.
Fermo un ofitsiant giovanissimo, energico, sorridente. Lavora alla chaikhana da due anni, posa per me con orgoglio. Porta una teiera e un’insalata fresca a Kuvatali, 56 anni, medico pediatra, che ha sentito la notizia. Così ha invitato Ramazon per sorseggiare la nostalgia di quando sotto quei loggiati venivano a mangiare spaghetti in brodo, dopo le lezioni in università. C’è una punta di tristezza nei loro occhi piccoli, che mi guardano fissi e un po’ increduli, come a dire «che ci possiamo fare».
Il professore di geografia che mi ha fermata per strada invece è in preda alla collera. «Non ti dico il mio nome, non posso rischiare, ma devo dirti come la penso».
La chaikhana Rohat è un simbolo potente. Toccare lei significa toccare tutto, e tutti. Significa che il governo non ha paura. Per mesi, poi anni, tutti i giorni sono stati «gli ultimi giorni della chaikhana Rohat», finché la minaccia non è diventata realtà. Prima una recinzione, poi le ruspe, poi un cumulo di macerie e nient’altro.
Dal 2007 a oggi, il governo tagico si è particolarmente impegnato a demolire, edificio dopo edificio, il centro storico di Dushanbe. Da ben 31 anni nel Paese è al potere lo stesso presidente, Emomali Rahmon - il più longevo dittatore postsovietico insieme al bielorusso Alyaksandr Lukashenka.
Dietro queste demolizioni, e quindi dietro le nuove costruzioni scriteriate, c’è una banca cinese, la Eximbank, che possiede oltre il 60% del debito pubblico del Tagikistan. La chiamano la trappola del debito della diplomazia cinese, e il Tagikistan ci è dentro fino al collo. Non riuscendo a ripagarlo, Emomali Rahmon dal 2011 ha ceduto e continua a cedere vasti territori anche per uso militare, nonché miniere d'oro e di altri metalli, in cambio di prestiti enormi per infrastrutture, centrali elettriche e palazzi mastodontici che stanno cambiando completamente il volto della capitale, radendo al suolo il suo passato e sfaldando il suo tessuto sociale. Ad oggi, il Tagikistan ha già ceduto alla Cina un’area più grande di Singapore, e Rahmon non sembra avere intenzione di fermarsi.
L’anno scorso sono finalmente tornata in Pamir. Ero con il primo gruppo Kukushka che si è spinto fin lassù. Siamo entrati in Tagikistan attraverso la frontiera del passo di Kyzyl-Art - 17km di terra di nessuno a 4200m che separano le postazioni militari kirghisa e tagica. Oltre l’ultimo conteiner, la M41, la Pamir Highway, era costeggiata da una lunghissima e monotona rete altissima.
«È il nuovo confine con la Cina», mi aveva detto senza troppo entusiasmo Mohammed. Dalle mappe ufficiali il confine si trovava, in teoria, almeno una decina di chilometri più in là. Nel Pamir tagico che ancora parla kirghiso, passando oltre la distesa azzurra e abbacinante di Karakul, abbiamo visto militari cinesi armeggiare con un lanciarazzi appena oltre la barriera.
Il lago era il luogo ideale per un sano picnic postsovietico a base di noodles istantanei, così ci siamo fermati poco oltre. Finché, tra cumuli di sale e rare piante endemiche d’alta quota, abbiamo sentito un boato. Il mio sguardo incrocia quello di un driver più anziano, che senz’altro ha vissuto la guerra civile tagica, e si inchioda sui suoi occhi spalancati, vuoti. Mi fissa immobile, con una punta di terrore sul viso.
«È quel suono», penso, e una morsa mi prende lo stomaco.
È così che, negli angoli più remoti del mondo, le grandi potenze agiscono indisturbate e si rivelano per quello che sono, lontano dai riflettori. Lo fanno gli Emirati a Socotra. Lo fa l’Azerbaigian lungo le montagnose frontiere armene. Lo fa la Turchia in Siria e in Kurdistan, lo fa ovviamente Israele dovunque può, da Gaza al Libano, fino alla Siria.
Rimaniamo in ascolto finché non ne sentiamo un altro. Boom. Un suono che a tremilaseicento metri di altitudine atterrisce come il crollo di una diga. Ti sfonda i timpani e poi ti gela dentro. Un’esercitazione militare a una manciata di chilometri da noi, come se niente fosse. Tiriamo su in fretta tovaglie e vaschette, e proseguiamo verso sud in silenzio, direzione Ak-Baital, il passo carrabile più alto dell’intera Asia Centrale: 4655m.
Ma noi stavamo parlando di sale da tè e dei viali ombreggiati dai platani della capitale.
Gli abitanti hanno a lungo pensato che la chaikhana Rohat fosse intoccabile - e invece Rustam Emomali, il sindaco della capitale nonché figlio di Emomali Rahmon, ha dimostrato di non avere paura delle petizioni, delle manifestazioni e dell’opinione pubblica. Il 4 marzo 2025 le ruspe hanno iniziato a demolire la facciata, con due grandi mosaici, e i due padiglioni storici in legno intagliato e dai soffitti affrescati.
Ma la cancellazione della vecchia Stalinabad, come si è chiamata Dushanbe dal 1929 al 1961, fa parte di un fenomeno più ampio di riscrittura del passato e ricerca di nuove identità post-sovietiche comune anche alle altre repubbliche centroasiatiche. Le élite politiche sono in buona parte dei casi rimaste esattamente le stesse, o sono già le eredi, della nomenklatura corrotta già al potere negli anni ‘80. Ma le retoriche nazionaliste e populiste hanno imposto una pulizia accurata di ogni eredità sovietica, anche puramente strutturale, che, quando non può essere soppressa, viene rivestita con cura da orridi pannelli di plastica - un processo ubiquitario in Uzbekistan, ad esempio.
Al prezzo - letterale - di chilometri e chilometri quadrati di terreni e miniere svenduti a poco prezzo, il governo tagico ha costruito i palazzi mastodontici del parlamento e del governo, finanziati dalla Cina per 230 milioni e inaugurati da Xi Jinping in persona lo scorso 5 luglio. È l’opportunità per gli squallidi potentati locali di riscrivere la storia a loro piacimento, eliminando ogni evidenza di un mondo altro, cosmopolita e di cultura, attento ai più deboli, dove lo Stato dà, oltre a prendere, e non prende soltanto. La memoria storica di quegli anni morirà con la fascia della popolazione più anziana, che più passa il tempo, meno potrà protestare.
La nuova scintillante Dushanbe, sempre più inaccessibile a un Paese che nel 2023 dipendeva per il 38.42% dalle rimesse della sua forza lavoro emigrata in Russia, è il simbolo dello slittamento degli equilibri geopolitici in Asia Centrale. Con la Russia impegnata in Ucraina, la Cina acquista ancora più terreni.
«Ho portato mio nipote a vederla e gli ho fatto una foto qui davanti, perché abbia almeno un ricordo. Così la chaikhana Rohat non vivrà solo nel mio cuore», mi ha detto il professore prima di andarsene all’improvviso.
Socotra prende il largo


Il 14 febbraio è uscito il mio secondo libro: Socotra. Viaggio sentimentale in un’isola impossibile, Enrico Damiani Editore, con una prefazione di Laura Silvia Battaglia al-Jalal.
Le storie delle persone che vivono a Socotra stanno viaggiando in tante città italiane, arrivando dove loro non possono arrivare.
Prossime presentazioni:
14 maggio h. 19.00 Cuneo, Nuovo Cuneo, con Giorgia Spadoni
21 maggio h. 19.00 Milano, Libreria Anarres, con Paolo Cerruto
18 giugno h. 18.15 Pesaro, Libreria Campus Mondadori, con Francesco Casalino e Antonino di Gregorio
19 giugno h. 18.00 Padova, Libreria Pangea, con Luca Xodo
11 agosto h. 18.00, Champoluc (AO), Val d’Ayas, a Monterosa Racconta
Un trekking in Friuli, per il solstizio d’estate
Con la guida escursionistica AIGAE Nicola Ceschia stiamo studiando un nuovo itinerario tra Alpi e Prealpi Giulie, in Friuli. Una regione liminare, dalla natura rigogliosa, ricchissima di storie e connessioni che portano lontanissimo. Come lo sguardo dalla vetta, che spazia libero tra Italia, Austria, Slovenia e Croazia.
Intanto le date: 20, 21 e 22 giugno, trekking di difficoltà media - non per principianti, chi ha grande esperienza dovrà invece adattarsi a un passo più tranquillo e socievole.
Alla prossima newsletter per un avviso specifico con più dettagli.
Prossimi viaggi
Le prenotazioni estive sono in chiusura.
Se volevi fare un tour con noi quest’anno, c’è ancora posto solo in:
Slovacchia in treno, con Marco Carlone, 12-19 luglio, 1390€ / già confermato
Serbia e Bosnia, con Giorgia Spadoni, 7-17 agosto, 1790€ / già confermato
Moldova e Transnistria, con Gianluca Pardelli, 29 agosto - 5 settembre, 1490€ / manca 1 posto alla conferma :)
Tour autunno e inverno 2025
I programmi usciranno il 9 giugno 2025 alle 19.00.
Le iscrizioni apriranno il 23 giugno 2025 alle 19.00.
Tornerà l’Iraq (ce lo chiedete sempre!) e ci sarà anche una nuova meta decisamente straordinaria.
Iscrivetevi a kukushkatours.substack.com per ricevere una notifica non molesta che vi ricorda l’apertura delle iscrizioni.
Consigli stravolti
📖Ho divorato sia Pianeta Caucaso, che ho recensito per Meridiano13, sia Abcasia, ed. Keller, 2003 e 2013, di Wojciech Górecki, un monumento vivente della caucasologia. Ho preferito il secondo, un po’ più organico, rispetto al primo, ma sono due letture fondamentali per inquadrare in maniera puntuale la regione del Caucaso, a cominciare dalla complessità quasi incontenibile del Caucaso del Nord, che scompare nelle mappe sotto i confini uniformi della Federazione russa. Trovo solo un po’ triste che siano mere ri-edizioni senza alcuna modifica o revisione delle prime e datatissime traduzioni dei due testi. Testi comunque validissimi, procurateveli.
📖Ho preso a Piena libreria a Lisbona e divorato La stagione della migrazione a Nord, Tayeb Salih, ed. Sellerio, 1966, che Goffredo Fofi, riprendendo Edward Said, definisce «uno dei massimi capolavori della letteratura araba del Novecento». È intenso, potentemente simbolico, devastantemente poetico e con uno degli incipit più abbaglianti che abbia mai letto. Ambientato in un’ansa del Nilo ai margini del deserto del Sudan, un libro sul contatto, l’compenetrazione e la collisione tra Nord e Sud del mondo, un po’ sulla falsariga di Cuore di tenebra di Conrad. Stupendo, consigliatissimo.
📖Ricevuto in omaggio e letto subito Una strada per la Georgia. Poeti, sentimenti di piazza e lingue di confine, di Elisa Baglioni, ed. Exorma, 2025. È molto ben scritto e credo sia onestamente una delle migliori fotografie della Georgia proprio contemporaneissima che ho letto in libro - ce n’era molto bisogno per dare una voce più organica alla commistione di espatriati, rifugiati e autoctoni che abitano le strade di Tbilisi, città straordinaria che non ha mai smesso di essere lo snodo cruciale di culture che è stata per secoli. Non è un reportage di viaggio: se vi aspettate descrizioni appassionanti da zone remote del Caucaso rimarrete delusi, perché Baglioni rimane più che altro nella capitale, con qualche puntatina solo nei luoghi più beceramente turistici del Paese (Gori, Mtskheta, Kazbegi). Il libro è più che altro una raccolta di conversazioni con poeti, attivisti e persone di cultura georgiane, ucraine, russe, bielorusse, che la Georgia ha accolto, non senza riluttanza e resistenze, e che in qualche modo ormai chiamano Tbilisi casa dal 22 febbraio 2022. Leggero, acuto, consigliato.
📖Da Gulliver a Verona, libreria specializzata in viaggi e piena (pienissima) di gemme rare, ho preso Sana’a e la notte di Elena Dak, che è stata mia collega a Socotra, e un rarissimo Viaggio all’Ararat finalmente tradotto in italiano di Friedrich Parrot, quello della Punta Parrot del Monte Rosa, nonché primo scalatore dell’Ararat - vi ricordate? Ne avevamo parlato in Cemento. Già finito il secondo, emozionante.
📖Ricevuto in omaggio Mare Aperto di Luca Misculin, che non vedo l’ora di divorare quando tornerò dai viaggi primaverili!
🗞️Letto questa storia pazzesca sulla newsletter Supernuclear, che è una bella idea, senz’altro declinabile in mille altre varianti, per chi sente di vivere in un quartiere senza comunità.
🗞️Sempre bellissime e ispiratorie le ultime newsletter di Angelo Zinna, Collisioni.
🎵È primavera e in me ritorna il ritmo del rock jugoslavo. Verujem, ne verujem… Bajaga i Instruktori.
🎵Un po’ di Ladaniva in tributo al Paese straordinario che è l’Armenia.
🎵Grazie ad Anna ho scoperto le sonorità misteriose di Massimo Silverio, che scrive e canta in friulano carnico, il gruppo dialettale del furlan parlato in Carnia. Veramente un trip, suona melodioso come una lingua elfica.
🎵Non so bene come sono approdata anche a Daniela Pes, ipnotica, evocativa, i testi sono in gallurese e meravigliosamente incomprensibili.
🎧Ho finalmente dopo averlo rimandato per ere geologiche Sonar, di Nicolò Porcelluzzi, che mi è piaciuto moltissimo. Porcelluzzi non ha proprio la voce più simpatica al mondo ma il viaggio nei suoni tra mammiferi dentro e fuori dall’acqua è tremendamente affascinante, mi sono ritrovata a spaziare con la fantasia tra canti delle balene, teorie del suono e della musica e suoni firma dei delfini. Evadere dalla dimensione umana del mondo in cui siamo immersi nella stragrande maggioranza del nostro tempo mi fa sembrare ancora più dolorosamente insensato quanto riusciamo a farci del male a vicenda come specie, sterminandoci tra dinamiche di potere, quando ci sono mondi paralleli sul nostro stesso pianeta di cui sappiamo pochissimo.
🎧 Iniziato Basaglia e i suoi, di Massimo Cirri e Matteo Caccia, carino, anche se mi sta piacendo più Tutta colpa di Basaglia, di Ludovica Jona e Elisa Storace. Ho attinto alla preziosissima lista di podcast consigliati dal gruppo Telegram di Pain de Route. Grazie ♥
📽️Parlando di film più strani e che forse non avete visto, tempo fa mi sono cimentata nelle due puntate dei Fratelli Karamazov di edizione sovietica, regia di Kirill Lavrov, 1969. È un adattamento dell’omonimo romanzo di Dostoevskij. Forse serve aver già letto il romanzo per apprezzarlo meglio, ma incredibilmente spassoso e dinamico per avere gli anni che ha. Bellissimo.
Per oggi è tutto.
A presto,
Eleonora
Tanti auguri, e che esperienza sempre leggerti!
Auguri PdR e complimenti Ele! ❤️