🍓 «Ya russkaya... Ya ukrainka». Una babushka in Georgia e i prossimi trekking alpini
Una storia dal Caucaso e due nuove escursioni, in Val Grande e in Friuli
Ciao!
Questa è Pain de Route, la newsletter più imprevedibile dell’Est, di Eleonora Sacco, che poi sarei io.
Volevo raccontarvi una storia bella dal Kakheti, la regione più grande e orientale della Georgia, dove c’è un paesino semiabbandonato di nome Ulyanovka, dove sono passata con l’ultimo tour primaverile. Poi sono già aperte le iscrizioni per due escursioni in montagna, a fine maggio in Val Grande e a fine giugno in Friuli, più in basso.
Buona lettura!
«Ya russkaya... Ya ukrainka»
Ulyanovka in realtà non si chiama più così. La pigrizia della cartografia digitale la conserva devota a Vladimir Ilich Ulyanov, cioè Lenin, con cui mi sono tormentata per tre mesi lavorando a Kult, ma i nuovi cartelli stradali ormai l’hanno assimilata alla lingua ufficiale del paese a cui appartiene. Iliatsminda quindi, la città di sant’Elia, che per la verità è poco più di una strada popolata da qualche anziano seduto a controllare chi passa e un furgone che scarica casse di cavoli dal portellone del retro, bazaar improvvisato. Una signora pallida, con un fazzoletto a fiori in testa, ispeziona la verdura attentamente. Una ciocca di capelli biondi le sbuca dalla nuca. Prendiamo una svolta, la donna esce dal mio campo visivo e non riesco a studiarla più a fondo.
È ora di salutare Tommaso, che torna ad Almaty dopo qualche giorno di training in Georgia. Aspettiamo tutti insieme una marshrutka a bordo strada coi caratteri georgiani per Tbilisi, gli porto lo zaino, un abbraccio e un bacio. Un po’ un fratello che rivedrò solo tra molti mesi, con cui non c’è stato abbastanza tempo di dirsi le cose.
Quando la sua mano aperta dietro il finestrino sfreccia via, verso la città, il senso di vuoto di posti come Ulyanovka mi si allarga nel petto, come una talpa che mi scava dentro, tra vertigini e horror vacui. Propongo di fare due passi per smorzare un po’ la commozione. C’è una strada sterrata, sorvegliata dal solito cane un po’ randagio un po’ no, che abbaia senza sapere neanche lui cosa vuole.
Prima ancora di chiamarsi così, Ulyanovka era un insediamento molokano del Caucaso. La frontiera dove le comunità eretiche in seno alla Russia ortodossa di Caterina la Grande venivano esiliate senza obbligo di leva e tasse. Bastava che se ne andassero il più lontano possibile, in quarantena per evitare che contagiassero altre teste calde. Le mandavano oltre il Caucaso, in terre di confine da secoli devastate da incursioni persiane o dagestane, dove nessuno voleva vivere sapendo che forse avrebbe perso tutto in una razzia.
Questa gente non aveva fatto del male a nessuno, ma rifiutava l’autorità religiosa. Niente icone, niente preti ingioiellati, niente chiese dalle cupole dorate a cipolla, niente ori e sfarzi e incensi e denaro. Si lavorava la terra tutti insieme, con massima cura per il dettaglio più piccolo, per l’erba selvatica più pura, per il fiore più tenero. Ogni cosa, dai campi alle case, doveva risplendere della gioia di vivere in Dio. A tetto spiovente, rigorosamente in legno e impossibili da confondere con quelle georgiane, le loro case oggi sono semiabbandonate ma ancora tutte adorne di merletti in legno intagliato, grondaie e abbaini decorati con sagome di passeri, cervi, cerbiatti, il legno ancora verniciato di violetto, azzurro cielo, verde menta. In ogni giardino incolto esplodono i lillà al massimo della loro fioritura, accarezzati dalle ombre blu del tramonto.
Sembra che chi ci abitava se ne sia andato da poco, o che forse qualcuno ci viva ancora, in quelle case, magari solo per qualche mese all’anno, facendo poco rumore, lasciando in fondo un po’ tutto così com’è, a memoria dei tempi migliori.
Continuiamo a camminare, il cane frustrato si arrende al nostro passaggio. In fondo alla strada vedo un cappellino bianco da pescatore e un’anziana signora seduta su un ceppo a bordo strada. Non ha erba cipollina da vendere, noci da sgusciare, la maglia da fare. Ci guarda da lontano in silenzio, siede da sola, aspetta. Come minimo dobbiamo salutarla.
Mi faccio avanti piano piano, con discrezione, lasciandomi il gruppo alle spalle. Scegliere che lingua usare, in questi casi, è un’operazione delicatissima, che rischia di incrinare lo specchio magico. Scelgo il georgiano, per il quieto vivere.
«Gamarjoba», dico, allargando bene la bocca.
La nonna dice qualcosa che non capisco, forse in georgiano, ma non è un saluto - è come una conversazione lasciata in sospeso. Stende le mani verso la porta di casa sua. Non servono altre parole: è un invito a passare da lei, senza nemmeno sapere chi siamo, da dove veniamo. Siamo quindici - un esercito. Il gesto è inequivocabile. Faccio segno che non possiamo accettare.
«Kartuli?», le chiedo timidamente, georgiano?
«Ya russkàya», scandisce a chiare lettere. Non il suo nome, ma io sono russa. L’accento sulla a mi destabilizza un po’: che strano.
Provo a chiederle come si chiama, lo ripeto più e più volte, faccio gesti, ma mi guarda smarrita. Poi mi spiega: sono sorda, non capisco quello che dici, ma posso leggere e scrivere. Per piacere, scrivi.
Mi tremano un po’ le mani, estraggo il cellulare. Ho paura sia scritto troppo in piccolo, così metto il maiuscolo e uso meno parole possibili. IMYA. Nome.
La nonnina si illumina e mi sorride. «Taisa», continua. E precisa: «Ya iz Kharkova, ya ukrainka». Un tassello dopo l’altro, piano piano, una vita intera in poche frasi. È di Kharkov, è ucraina, ma usa il nome russo della città. 71 anni di vita, da 52 anni in Georgia. «È 52 anni che sono Garibashvili, che ho un cognome georgiano». Si è sposata con uno di qui, che forse non c’è più. «Ma mio figlio è tornato a vivere in Ucraina. Sumskaya oblast’». Un nome sentito troppe volte, che sa di morte e distruzione, che mi provoca una fitta allo stomaco. Una scossa di dolore le attraversa il viso, la bocca si contrae, poi si spegne in rassegnazione: «Là dove c’è la guerra». Mi si gela il sangue, non ho più niente da dire, se non un sommesso mi dispiace.
Sono rimasti in pochi, a Ulyanovka. Nel 2014 erano 560 censiti, oggi sicuramente meno. Dal fondo della strada, un ragazzino riporta il suo gregge a casa. Ha un cappellino da pastore e dei begli occhi grandi e dolci, color nocciola, da georgiano. «Anche sua nonna, la Kamila, è ukrainka», continua Taisa. Il ragazzino mi cerca e mi chiede, in georgiano, se abbiamo bisogno di qualcosa, ma no, è tutto a posto.
La fatica di pronunciare ogni frase è tangibile: ogni parola, così calibrata, mi sembra più preziosa dell’oro. Continua a invitarci a casa per un caffè, nella sua casetta in legno azzurra e un po’ fatata, ma davvero non possiamo - sarebbe un’invasione barbarica, in un luogo così fragile.
«E voi di dove siete?», mi chiede infine, con quella parola magica, che riecheggia sempre, dovunque, come un mantra quando si è a Est. Otkuda, pronunciato atkùda, una parola-universo che sblocca gli ingranaggi delle centinaia di popoli e migliaia di migrazioni, deportazioni, rimpatri, trasferimenti che hanno attraversato quelle terre. Ogni risposta è il crollo di una diga.
«Veniamo tutti dall’Italia». Lo sillabo piano. Non capisce. Lo scrivo di nuovo. Italiya, con l’emoji di una bandierina di fianco.
Taisa si commuove, corruga il viso come per piangere. Solleva un braccio in alto, a scacciare via una sciocchezza incredibile. «Vaime!», le esce, in georgiano. Oddio!
Russa per semplicità, ucraina per chi capisce, cinquant’anni di Georgia che escono in un vaime di genuino stupore. Un ritratto perfetto della complessità dell’Est.
Mi guarda con occhi pieni d’affetto e vorrei abbracciarla, ma non ci riesco. Le metto una mano affettuosa sulla spalla - avevo paura di farle male, talmente mi parlava a cuore aperto. Probabilmente non mi sente, ma la saluto augurandole tutto il meglio, la mano sul cuore, un bacio al vento e sorrisi.
La luce della sera scende sui tetti spioventi di Ulyanovka e sulle ultime anime rimaste ad abitarla. Il cane ci abbaia più stanco, ha capito che ce ne stiamo andando. Qualche luce si accende in fondo alla via, una signora esce a prendere l’acqua dalla pompa del pozzo. Ci guarda scivolare via, tra buche e pozzanghere, formiche di passaggio tra quelle anime dimenticate in fondo al Kakheti.
Cosa c’è di nuovo: Val Grande e Friuli
Sabato parto per accompagnare un viaggio Kel12 in Libano. Sarà uno stile di viaggio nuovo per me e, onestamente, più difficile, ma sono contenta di tornare. Dopo mi prenderò una settimana di viaggio totale e solo per me, votato all’assoluta improduttività - non scriverò, pubblicherò, racconterò assolutamente nulla pubblicamente. È un esercizio importante da fare ogni tanto, per disabituarsi alla sensazione opprimente di produttività forzata a cui ci spinge la nostra società. Spero che anche voi possiate fare ogni tanto un’esperienza così, per ricordarsi anche come viaggiavamo prima - senza dover per forza cacciar fuori un prodotto da ogni cosa che facciamo. Spero sarà liberatorio.
Il 27 e 28 maggio torniamo in Val Grande, questa volta accedendo da Nord, dormendo al bivacco del Monte Mottac. È un percorso maestoso di grandi paesaggi e pascoli d’alta quota, dedicato ai vuoti e ai silenzi di un’area che amo molto e che è la più grande area completamente selvaggia d’Italia, a sole due ore da Milano. Con Pietro Beretta, guida ufficiale parco, 110€, tre pasti painderoutiani inclusi.
Programma e iscrizione quiIl 23, 24 e 25 giugno proviamo a fare un’esplorazione semplice ma profonda delle montagne di confine del Friuli, tra val Resia, val Uccea e val Torre. Prealpi selvagge, dove si parla uno slavo antico su suolo oggi italiano. In tutti i modi, il Friuli mi ha fatto capire che devo tornare. Due notti in tenda, trekking di media difficoltà, casere, lingue dimenticate, crinali erbosi, animali selvatici, una guida escursionistica bravissima, Nicola Ceschia. Dalle 14 del venerdì 23 alle 14 di domenica 25 giugno, quattro pasti painderoutiani inclusi, 120€.
Programma e iscrizione quiDomenica 4 giugno sarò ospite dell’associazione “Libera Università Popolare della Valpolicella” per parlare di viaggi a Est, e specialmente in Russia e Ucraina, con Alen Loreti, biografo e curatore delle opere di Tiziano Terzani. Ore 10, vi darò più dettagli quando saremo più sotto data.
Consigli stravolti
Sto finendo V13, già bestseller di Emmanuel Carrère. Che dire, quell’uomo sa superarsi. È una specie di cronaca dei processi agli attentati di Parigi, ma in realtà c’è molto di più. Sconvolgente, a tratti persino comico (giuro) e scritto ovviamente benissimo.
Per svagarmi un po’ sto sentendo Il decennio breve, un podcast di Maria Cafagna (no, leggete bene), Stefano Monti e Alice Oliveri che fa molto ridere e un po’ commuovere in mezzo a tutte le bruttezze e i cult del decennio 2001 - 2011, che ha attraversato la mia infanzia e adolescenza. Si finisce a cantare a squarciagola It’s a daaaamn coooold niiiiight insieme a loro in totale cringità.
Bellissimo sempre Ai margini del primo maggio, ai disturbati dalla quiete, di Paolo Cerruto
Tra pochissimi giorni esce Il bello che piace, di Cristina Cassese, che ha pubblicato come me con EDEA, che è famiglia. Antropologa culturale, so che sarà ricchissimo di spunti inaspettati, divertenti, sconvolgenti e tutt’altro che banali. Preordinatelo.
Stamattina ho sparato anch’io Gnonnas Pédro e tutto è sembrato un po’ più leggero :)
Per oggi è tutto!
Vi mando un abbraccio e a presto,
Eleonora
Grazie