🍒Una spia al confine con l'Iran
Un viaggio Armenia del sud, un trekking in Friuli, nuove presentazioni e tour autunnali
Ciao!
Questa è Pain de Route, cioè pan di via, la newsletter più imprevedibile dell’Est. Di Eleonora Sacco, che poi sarei io. Se te l’hanno inoltrata, puoi iscriverti da qui.
È lo spazio dove provo ad arrotolare i fili ingarbugliati di una vita senza copione, annuncio in anteprima gli eventi e i viaggi di gruppo e raccolgo qualche consiglio di ascolto e lettura. Esce quando deve uscire.
Puoi ascoltare questo episodio della newsletter anche in formato podcast, più su.
Info importanti in breve:
- ho scritto un nuovo libro, lo presento il 21 maggio ore 19 da Anarres a Milano
- sono aperte le iscrizioni per il trekking in Friuli, il 20-21-22 giugno
- qualche spoiler sui tour autunnali Kukushka Tours
«E chi mi dice che non sei una spia?»
Vista su Meghri dal quartiere di Poqr Tagh. Altre foto dall’area sul canale Telegram.
La domanda mi spiazza a tal punto che penso di aver capito male. Gli chiedo di ripetere. A. me lo sillaba con uno sguardo di sfida: «shpi-on, shpi-on».
È la prima volta che qualcuno me lo dice senza scherzare. Di primo acchito mi offendo, poi capisco: come provare il contrario? È la mia parola contro la sua. E, in effetti, siamo schiacciati dentro una tenaglia, nella cittadina più a sud di tutta l’Armenia: Agarak, nella regione di Syunik.
Da qui in poi tenete a portata una mappa del Caucaso o guardate quella più in basso, perché sennò vi garantisco che non si capisce niente.
A meno di un chilometro dal pergolato sotto cui ci troviamo c’è la frontiera con l’Iran, oltre le acque limacciose del fiume Aras1 e due barriere di filo spinato che corrono dividendo la stessa valle per 43 chilometri. È l’unica porta, qui a sud, attraverso cui l’Armenia dagli anni ‘90 prende ossigeno: per trovare un’altra frontiera aperta bisogna raggiungere la Georgia, all’estremo nord. Tutte le altre frontiere, con l’Azerbaigian e la Turchia, sono chiuse da trent’anni e dal 2016 le prime, con la riapertura del conflitto in Karabakh2, sono anche piuttosto pericolose. È difficile tenere il conto da allora di quante volte i soldati azerbaigiani abbiano aperto il fuoco contro villaggi di confine, contadini nei campi e postazioni militari.
In Armenia le distanze sono piccole. Le frontiere disegnate dai sovietici e la situazione politica attuale, però, prevedono molto spesso percorsi contorti per raggiungere due punti sulla mappa apparentemente vicini. Dietro la montagna, a cinque chilometri in linea d’aria, si trova il Nakhichevan (Naxçıvan), la grossa exclave azerbaigiana che dà all’Azerbaigian l’unico, brevissimo punto di contatto con la Turchia: dieci chilometri lungo lo stesso fiume Aras, ma molto più a nord. Una trentina di chilometri più a est di Agarak, c’è di nuovo l’Azerbaigian, con le province intorno all’ex Artsakh (Nagorno Karabakh) che gli azerbaigiani hanno riconquistato durante il conflitto del 2020. Per gli armeni è un confine nuovo, che de facto si è trovato molto più a est per trent’anni, e dall’altra parte ora c’è un esercito armato fino ai denti. Alle nostre spalle, verso nord, ci sono immense e blindatissime miniere di rame e molibdeno. Agarak è in una valle chiusa.
A. si sforza di essere gentile. Mi inonda di caffè e cioccolatini merci, ma è sospettoso, continua a rispondere al cellulare, mi appioppa sua madre mentre lui sparisce. Abbiamo poco tempo, i minuti corrono veloci, provo a chiedergli del corridoio ma tronca con un «so quello che vuoi sapere. Te lo farò scrivere via mail da un mio collaboratore». Non si fida. È un uomo, ha trentacinque anni, vive schiacciato tra due confini pericolosi e probabilmente, come tutti, nel 2020 ha combattuto: sa che le spie esistono davvero. Il mio russo e il mio viso un po’ sovietico sono una combinazione pericolosa. Avrà pensato «nasha», ‘nostra’.
Le nuvole basse, dense, hanno spento la luce del mezzogiorno e ad Agarak non c’è niente da fare. È solo fine aprile ma l’afa è soffocante: ora capisco perché tutti strabuzzavano gli occhi quando chiedevo di luglio e agosto, quando fa cinquanta gradi. La prima marshrutka per tornare a Meghri parte tra quaranta minuti e io inganno il tempo osservando l’Iran tra i pergolati, sorseggiando un succhino russo dobryy pagato a peso d’oro. D’altronde, non può aver fatto più strada di così in Armenia, provenendo dalla Russia.
Corridoio è un termine ambiguo nato dopo gli accordi per il cessate il fuoco del secondo conflitto del Nagorno Karabakh firmati a Mosca da Putin, Aliyev e Pashinyan il 9 novembre 2020.
Capire come la gente si sente nei confronti del corridoio è il motivo principale per cui volevo venire fin qui. L’art. 9 dell’accordo non cita questa esatta parola, ma rimane vago, specificando che «all economic and transport connections in the region shall be unblocked» e che l’Armenia dovrà garantire il libero passaggio di «persons, vehicles and cargo» su supervisione russa. Questo per Pashinyan forse poteva anche significare che l’Armenia avrebbe ripristinato i collegamenti ferroviari con la Russia e con l’Iran, ma per Aliyev è stato solo l’inizio di una serie di pericolose minacce di volersi appropriare di un corridoio di territorio armeno per collegare l’exclave col resto del Paese, e quindi avere un confine territoriale pieno con la Turchia. La vaghezza dei termini su cui il gruppo di lavoro ha iniziato a discutere (senza risultati) ha portato a infinite speculazioni e alimentato paure.
Quando la marshrutka torna sulla piazzetta mi siedo vicino al finestrino per osservare meglio Norduz, l’unico punto di accesso all’Iran, da cui decine di persone vanno e vengono cariche di sacchi, sacchetti, borse di plastica.
«Anche tu vai in Iran?», mi chiede una signora.
«No, per noi serve il visto, non è così facile purtroppo. Armenia ok, Iran non molto ok» le rispondo. Le chiedo se hanno con loro un velo per coprirsi i capelli.
«Ce l’ho, ce l’ho», ride e me lo mostra ripiegato nella borsetta. Per gli armeni non serve il visto per l’Iran. «Andiamo spesso a comprare produkty, ogni persona può portarne fino a 10kg. Si trova tutto a prezzi bassi, ma la qualità è così così», spiega.
Ad Agarak c’è una vecchia stazione dei treni. La intravedo dal finestrino, è in metallo, ovviamente in stato di abbandono. Concepire una ferrovia da queste parti oggi sembra assurdo, eppure quei binari c’erano, e sono stati in funzione fino al 1993: collegavano Agarak, Meghri e la grande città mineraria di Kapan a una lunga linea che correva lungo le frontiere sovietiche con Turchia e Iran (vedi mappa). Ed è proprio su questi binari ferroviari che il giornalista Thomas De Waal colloca le primissime violenze interetniche del primo conflitto in Nagorno Karabakh, con l’esodo (quasi dimenticato da entrambe le parti) di centinaia di azerbaigiani, che raggiunsero Baku nel 1987 in condizioni disperate, abbandonando per sempre i loro villaggi in Syunik.
Mappa anni ‘50 delle ferrovie sovietiche in Caucaso del Sud, qui una mappa in inglese
Costruita dalla Russia zarista per trasportare più velocemente truppe sul confine con la Persia e l’Impero ottomano, la ferrovia del Caucaso del Sud segnò lo sviluppo della regione specialmente in epoca sovietica, collegando fabbriche, miniere e aree agricole anche tra le remote montagne della Transcaucasia. In Syunik però i binari arrivarono solo dopo il 1941, per far sì che gli aiuti degli Alleati potessero entrare in Unione Sovietica tramite i porti marittimi dell’Iran, transitare su rotaia fino al nord, a Julfa, e quindi, via exclave di Nakhichevan, entrare in URSS. Lungo questo incredibile corridoio persiano l’URSS ricevette tonnellate e tonnellate di aiuti militari americani su programma Lend-Lease. Se penso che in quel periodo ora come ora inimmaginabile mia nonna aveva otto anni, mi gira la testa.
Oggi, il ponte ferroviario di Julfa è chiuso, come tutte le frontiere tra Iran e Azerbaigian, e sembra che l’Iran l’abbia reso una sorta di attrazione turistica, con qualche busto e bassorilievo pacchiano. L’Armenia invece commercia molto con l’Iran. Lungo le nuove strade per il sud - quelle vecchie non sono più percorribili perché troppo vicine o sconfinanti in Azerbaigian - si vedono quasi solo grossi camion dall’inconfondibile targa gialla in numeri persiani.
Escludendo la Seconda guerra mondiale, il resto della frontiera tra l’Iran e l’URSS è stata in realtà sempre chiusa ermeticamente e controllata con sospetto dai pogranichniki sovietici. Attraversare quel confine, per una persona comune, era inconcepibile, eppure da Agarak e Meghri è talmente vicino che sembra di poterlo toccare. Le montagne fuori dalla finestra - lo sfondo di ogni giornata della propria vita - erano oltrecortina e quindi inaccessibili. L’area era di conseguenza sottoposta al pasportnyy rezhim, un ‘regime passaportuale’, una fortissima limitazione degli accessi in città.
La marshrutka corre lungo quel confine tra due mondi, che nel 1979 doveva aver simboleggiato una linea di faglia non da poco - il ritorno di Khomeini e la nascita della Repubblica islamica dell’Iran da un lato della valle, l’atea Unione sovietica in stagnazione dall’altro, che però si apprestava a invadere l’Afghanistan.
Nella valle, lo spazio in piano è molto poco. C’è la montagna da un lato, i pochi metri necessari a una strada, il filo spinato e il fiume. La ferrovia passava lungo la parete verticale della montagna, protetta da gallerie paramassi. Al bivio, scendo per proseguire in autostop fino alla stazione dei treni di Meghri, anch’essa abbandonata. Alla prima macchina di passaggio tiro fuori un braccio alla sovietica: non col pollice in su, ma col gesto di accostare. Una Lada scassata inchioda con un’intera famiglia a bordo, che sposta la bambina per farmi spazio sul retro. La maniglia della portiera mi resta in mano mentre cerco di aprirla, ma «nechego, nechego!» (‘fa niente!’, pron. nicivò) dice il nonno, così io e la maniglia saliamo e, pur avendo chiaramente fatto un danno, ricevo in cambio un sorriso a denti d’oro e due caramelle che la babushka mi nasconde nel pugno. Quando chiedo di lasciarmi alla stazione, nessuno batte ciglio, anzi, approvano all’unisono: «è un posto interessante».
La stazione è ancora graziosa, ma con i vetri sfondati e infestata dalle erbacce. Davanti all’insegna, in russo Мегри e in armeno Մեղրի, c’è il piedistallo del busto ora distrutto di Stepan Shaumian3. Che a suo modo, in passato, è stato un simbolo unificatore in Caucaso del Sud. Poco distante, i binari del treno sono stati staccati fin dove si poteva, davanti e dietro alle locomotive abbandonate. Una statua di una lavoratrice con la gonna al ginocchio e i capelli al vento getta uno sguardo serio all’Iran oltre il fiume. La sensazione di straniamento è un po’ la stessa che provavo osservando i talebani in Afghanistan oltre il Panj, dal Tagikistan, con i capelli sciolti e la maglietta a maniche corte.
Vedo un contadino spruzzare il verderame sulla vite, in Iran. È talmente vicino che se gli urlassi ciao potrebbe rispondermi. Conto i vetri rotti sotto le scarpe, guardo il busto di Shaumian distrutto: com’è cambiato tutto in soli trent’anni, e come cambierà di nuovo, forse, per l’ennesima volta... Da questa esatta stazione, fino alla fine degli anni ‘80 transitava di tutto. Frutta, verdura, vino, oro, argento, rame, molibdeno e passeggeri di ogni etnia scorrevano attraversando i confini fittizi delle repubbliche sovietiche, che esistevano solo sulle carte geografiche.
Per tornare in città trovo un passaggio su un camion diretto a Meghri dalla strada alta, che mi regala un panorama insperato sull’intera valle. Dove i rivoli d’acqua dell’Aras irrigano, il fondovalle esplode di un verde rigoglioso, già estivo, mentre tutt’intorno le montagne sono scarpate ripide e sassose, completamente brulle.
Tornare a Meghri e alle sue case in pietra fa impressione. Svicolando tra i giardini delle vecchie case, seguendo scalette segrete e scorciatoie, Meghri mi ricorda la valle di Wakhan, più che non una città armena. Le cupole delle sue chiese sbucano dietro i prefabbricati rivestiti in tufo rosa, mimetizzati tra le rocce come le case antiche.
Ma è nelle chiese di Meghri che il confine si spalanca all’improvviso. Se non fosse per i volti, per i nudi, per i mostri marini e diavoli alati, le si direbbero moschee persiane. Fuori da quegli affreschi strabilianti, ogni metro quadrato di terreno produce frutti senza sforzo: fichi, cachi, melograni, albicocche, pesche, prugne, non manca niente. I monti di Zangezur, in lontananza, sono coni smussati sommersi di neve, da cui spira un’aria di alta montagna, che si mescola all’afa e alle polveri che salgono dalla Persia.
In omaggio al confine, ascolto le melodie psichedeliche di Kourosh Yaghmaei mentre aspetto Elen per una passeggiata lontano dal centro. Ci siamo conosciute il giorno prima sulla marshrutka da Kapan: ha solo ventitré anni, ma parla come una donna più adulta. Passeggiando tra le case, Elen saluta letteralmente ogni passante - Meghri è una comunità molto unita, la gente è molto diversa dal resto dell’Armenia. «Siamo simili agli artsakhi, qui a sud», mi spiega. Trova il coraggio di chiedermi se sono stata di là. Così le racconto a cuore aperto di quell’appartamento sfasciato a Baku, col bagno allagato, dove mi avevano ospitato quattro studentesse nel 2017. Quasi tutte hanno lasciato l’Azerbaigian: i tempi sono cambiati radicalmente, gli attivisti arrestati uno dopo l’altro e, nel 2025, non c’è più la (poca) libertà di parola che c’era nel 2017. Mentre ascoltavamo dietro le tazze di tè, iniziarono a parlarci del Karabakh nel buio della cucina. Una di loro, P., a un certo punto sbottò dicendo che a lei del Karabakh non fregava niente, che gli armeni potevano anche tenerselo, che l’unica cosa che voleva era poter vivere una vita serena, senza la paura della guerra e l’angoscia che suo fratello venisse chiamato al fronte. Solo una vita in pace, una vita normale.
Chiedo a Elen se ha paura che facciano davvero il corridoio. Mi dice di sì, ma che la voglia di vivere sulla propria terra è più forte della paura. Ha la stessa fermezza nello sguardo dei palestinesi che ho conosciuto. «È la paura di perderla che ce la rende ancora più bella», conclude. «Questa voglio scrivermela».
Il buio cala sulla città con la delicatezza dei tramonti primaverili. La lascio andare quella densità un po’ alla volta, espirando piano, sapendo che, in qualche modo, tornerà da me in altre forme.
Si torna a camminare in Friuli!
Sono aperte le iscrizioni al trekking in Friuli di 3 giorni, 20-21-22 giugno, con la guida escursionistica Nicola Ceschia.
È il terzo anno che lo facciamo, sempre con gli stessi obiettivi: inselvatichirsi un po', stare insieme in tenda e in casera, assaporare tutti i minuti del solstizio d'estate e scandagliare le identità di confine delle prealpi Giulie, ai piedi di cui si parla furlan, italiano, sloveno, resiano, e dalle cui vette si abbracciano con lo sguardo Austria, Italia, Slovenia e Croazia.
20, 21, 22 giugno, dalle 14.00 alle 14.00.
Servizi di guida di Nicola Ceschia, servizi di intrattenimento a corte miei, 4 pasti inclusi, il Friuli più verde che mai, porto il mio pesto fatto in casa e le tisane dal Turkmenistan, siamo (abbastanza) simpy.
140€, 10 posti
Ci organizziamo per partire insieme in macchina da Piemonte/Lombardia/Veneto e dividere i passaggi, incluso il viaggio solito della speranza per il Friuli si sta dentro in 3 giorni. Difficoltà media, richiesta buona esperienza in montagna.
Socotra va in tournée, prossime date
Sto presentando il mio secondo libro, Socotra. Viaggio sentimentale in un’isola impossibile, Enrico Damiani Editore, uscito a febbraio.
21 maggio torniamo a Milano da Anarres, con Paolo Cerruto, ore 19.00
18 giugno a Pesaro ore 18.15 da Libreria Campus, con Antonino di Gregorio e Francesco Casalino
19 giugno a Padova ore 18 da Libreria Pangea con Luca Xodo
11 agosto a Champoluc (AO) al festival Monterosa racconta, ore 18
28 novembre a Genova, tbd
Ci stiamo provando: in autunno e inverno a Lecco, Trieste, Udine, Napoli, Benevento, Lione, forse Losanna
Se volete invitare Socotra presso la vostra associazione o libreria, o volete consigliarci un contatto, rispondete pure a questa mail. Grazie!
I prossimi tour Kukushka
Consiglio di iscrivervi alla newsletter-notifica di Kukushka per non perdervi l’apertura delle iscrizioni.
I programmi autunno 2025 escono il 9 giugno alle 19.00
L’apertura iscrizioni autunno 2025 è il 23 giugno alle 19.00
Tour estivi, posti liberi in
Serbia e Bosnia, con Giorgia Spadoni, 7-17 agosto, 1790€ / ultimi posti
Moldova e Transnistria, con Gianluca Pardelli, 29 agosto - 5 settembre, 1490€ / ultimi posti
Tour autunnali in
Armenia Syunik, con Eleonora Sacco, 20-28 settembre
Sofia, con Giorgia Spadoni, 26-27-28 settembre
Belgrado, con Giorgia Spadoni, 10-11-12 ottobre
Iraq esteso, con Manuel Mezzadra, ottobre/novembre
Eritrea, con Gianluca Pardelli e Eleonora Sacco, 29 novembre - 9 dicembre
Iraq esteso, con Eleonora Sacco, capodanno
Iraq esteso, con Manuel Mezzadra, capodanno
Consigli stravolti
📖Sto leggendo Mare Aperto di Luca Misculin, che me l’ha mandato in regalo. È davvero una bella raccolta di storie dal Mediterraneo centrale, che spazia dalle lente migrazioni dall’Anatolia ai colossali e inutili bunker di Mussolini a Pantelleria, fino alle glorie fenicie di Cartagine e alle stragi quasi quotidiane a cui assistiamo da dieci anni a questa parte nelle nostre acque. Un ritratto storico e umano davvero appassionante - la sensazione è di aprire una finestra che ne spalanca altre cento a ogni capitolo, un po’ come quando ascoltavi un bravo professore al liceo.
🗞️Leggo sempre Ojalà di Alice Orrù con ammirazione e interesse. L’ultima newsletter parla di soldi, di come amministrarli e di come assicurarsi che non vadano a finanziare l’industria fossile e bellica, soprattutto le aziende israeliane coinvolte nella produzione di armi. Sembra impossibile, eppure quando si va a controllare bene ci si accorge che è più comune (e tristemente automatico) di quello che si pensa. Non è vero che singolarmente non possiamo fare niente: a chi dare e non dare i nostri soldi possiamo deciderlo (quasi) sempre e ogni giorno. Dall’8xmille ai prodotti del supermercato, fino ai fondi di investimento.
🗞️A proposito di Nakhichevan, Caucasus Heritage Watch ha pubblicato Silent Erasure, un dossier straordinario sull’eliminazione pianificata di tutti i 159 siti culturali armeni nell’exclave azerbaigiana. La manipolazione del passato passa anche da questo ed è senz’altro quello che vedremo fare nei prossimi mesi in Karabakh. Armeni e tatari/azerbaigiani hanno vissuto per secoli disseminati in centinaia di villaggi nell’intero Caucaso del Sud. Tra le violenze interetniche della fine degli anni ‘80 oltre un milione di persone complessivamente è dovuto fuggire da casa propria.
🗞️Se non li seguite già, We are local nomads hanno una nuova newsletter, Bagaglio, piena di consigli culturali di spessore. L’ultima è sull’Iran, la prima sull’Armenia.
🎵Ho scoperto per caso l’ensemble vocale femminile di base a Istanbul Peradi, fanno musica dall’Anatolia al Caucaso, deve esserci qualche spia georgiana tra loro, ma nel repertorio c’è anche musica circassa, laz e non solo.
🎵Un po’ di pop libico-egiziano con Hamid al-Shaeri, che mi manda fuori di testa
🎵Per colpa dei We are local nomads sto in fissa da settimane con Kourosh Yaghmaei, icona del rock psichedelico iraniano, che ho ascoltato in cuffia mentre passeggiavo per Meghri. L’intro di Gole Yakh è iconico e potreste averlo già sentito campionato altrove, come in Adam and Eve di Nas. Non perdetevi tutta la playlist di musica iraniana che hanno selezionato Alle e Urbo nella loro newsletter, c’è molto ma molto più di ehi lascia entrare Ascanio.
🎵 Ho promesso ad amici che avrei spammato questa gemma per pochi che inspiegabilmente i miei radar in tutti questi anni non avevano mai intercettato: di quando il buon Goran Bregović si prestava a imbarazzanti video promozionali della Val di Fiemme… Grazie a Laura per aver reso questo maggio un capolavoro del cringe
🎧Niente, quando parla Sara Poma io non capisco più niente e il suo nuovo La città d’amianto, dedicato alla storia dell’Eternit e di Casale Monferrato, mi è piaciuto moltissimo. Non sono mai stata a Casale, ora vorrei andarci e guardarla con una consapevolezza diversa.
🎧 Divorato anche Una mattina di Luca Misculin, la prima stagione di una trilogia sulla Resistenza, incentrata sul 1943. Ho imparato moltissime cose che non sapevo, davvero ben fatto e interessante.
📽️Se siete a Milano, non perdetevi la rassegna Amara terra mia che Nuovo Armenia farà dal 24 maggio al 26 luglio, con film dal Nord Africa, dal Levante e dal Corno d’Africa.
📽️Una cara amica mi ha fatto vedere un film che non avrei visto da sola e che invece mi è piaciuto molto, Kneecap (2024): racconta la storia dell’omonima band hip hop che è alla guida di un movimento di salvaguardia della lingua gaelica irlandese.
A presto,
Eleonora
In armeno e russo Araks, in greco Araxes, in persiano e turco Aras, in azero Araz.
Il primo conflitto del Nagorno Karabakh (1988-1994) - tra le forze armene del Karabakh, supportate dall’Armenia, e le forze azerbaigiane - si è conclusa con l’indipendenza de facto dall’Azerbaigian della Repubblica dell’Artsakh (il nome armeno del Nagorno Karabakh). In trent’anni, ripetuti attacchi azerbaigiani al confine si sono evoluti in un nuovo conflitto su larga scala nell’autunno 2020: l’esercito del Karabakh ha perso il controllo di parte della regione del Karabakh in senso stretto e i suoi territori cuscinetto. Tra il 19 e il 20 settembre 2023, violando il cessate il fuoco, le forze azerbaigiane hanno riaperto il conflitto, che si è concluso con l’espulsione della popolazione armena del Karabakh (120.000 persone) e con la resa incondizionata della Repubblica dell’Artsakh.
Rivoluzionario bolscevico armeno a capo dei leggendari 26 commissari della Comune di Baku, ucciso nel 1918 da forze anti-rivoluzionarie nei pressi di Krasnovodsk, oggi in Turkmenistan.
Io e un mio amico facemmo Georgia-Armenia-Iran con marshrutka e autostop vari due anni fa.. Il tragitto da Yerevan a Meghri è stato qualcosa di pazzesco in effetti (con tanto di taxi-Lada in panne sul passo sopra Kapan...).
Un cambio di paesaggi, di climi e di sensazioni estremamente raro in uno spazio così ridotto. Abbiamo avuto la fortuna di avere il visto per l'Iran (nonché di aver già visitato questo paese). Passare il ponte sull'Aras è stato emozionante, e poi giù in taxi verso Jolfa e la grande città di Tabriz. L'Azerbaijan iraniano merita davvero: una regione molto interessante e piena di storia e curiosità (tutti parlano turco tra l'altro...), andrebbe aggiunto ai percorsi del Caucaso del sud.
Si tratta veramente, come sul Panj in Tagikistan, di un mondo che era unito fino a 200 anni fa e poi l'arrivo dei russi e dei sovietici ha cambiato tutto. Già nel primo villaggio oltre l'Aras nessuno parla una parola di russo o sa nemmeno cosa sia Mosca. Inoltre è impressionante come nonostante sanzioni e problemi di ogni genere l'Iran sembrava, all'epoca, quasi messo meglio dell'Armenia...